Il padre, vedendolo partire “per un paese lontano”, già si era detto pronto ad aspettarlo, ad oltranza: “Se non tardi – bisbigliò al figlio senza alzare la voce – ti aspetterò per tutta la vita. Son tuo padre”. Quella casa, al figlio più giovane, gli stava stretta: “Questa casa è una prigione!” sembra di sentirlo rinfacciare al padre, alla madre.
“Sappi che questa casa non è un albergo” gli rispondeva con il ghigno il fratello più grande, quello tutto casa-e-chiesa. Fu per questo che un giorno sbatté la porta e se ne andò: voleva essere re di se stesso, la misura del suo vivere, l’assoluto. Il padre acconsentì: a casa sua aveva sempre insegnato che non ci può essere gioia senza libertà. Libertà anche d’andarsene a zonzo, a sperperare quella libertà che a casa, un giorno, si accorgerà era la più bella.
Sbatté la testa, dopo aver sbattuto la porta. Manco coi maiali gli dettero la possibilità di spartire il pasto: “Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla”. Tasche vuote, cuore afflosciato, il pensiero altrove. Tra la cenere s’accende un’immagine, quella del pane a casa di papà. È “pane in abbondanza, e io qui muoio di fame”. Sdraiato nelle alcove delle prostitute, a far pascolare i porci nei campi, ad affastellare i suoi pensieri: riconobbe la felicità dal rumore che aveva fatto andandosene. S’accorse – “non è mai troppo tardi” dicono al mio paese – che solo a casa era davvero libero, di quella felicità ch’è cagione di una gioia piena. “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Che, se non fosse Vangelo, parrebbe un paradosso di quelli da cappottarsi dal ridere: dopo aver mollato tutto, si disse tra sé “Quasi quasi (ri)mollo tutto e divento felice”. Gli fu necessario perdersi per ritrovarsi: è la storia di tanti di noi, di chi si alza dicendo d’avere “commesso il peccato più grande che un uomo possa commettere: non sono stato felice” (J.L. Borges).
Il padre, al vederlo, rimase il padre di sempre. Si mostrò padre nell’attimo esatto in cui il figlio s’aspettava l’abbandono. Lo vide rincasare e gli bastò. Non gli importò perché fosse tornato: per fame, dispetto, per necessità. Gl’importò di sapere ch’era tornato. Era mancata la fedeltà ai princìpi? Stavolta la felicità del figlio valeva più della fedeltà ferita: “C’è gente che è innamorata ma è infedele – avrà pensato il padre (ri)guardandoselo – e c’è gente che è fedele ma non è innamorata”. Il figlio, da parte sua, si era già preparato la giustificazione: “Credo nella fedeltà, papà, ma non sono un praticante”. Non servì nemmeno. Per chi è padre davvero, la fedeltà non è negli atti bensì nel cuore: “Presto (…) perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (cfr Lc 15,1-32). Glielo lesse negli occhi, sbandati ma pentiti. E glielo firmò come foglio di ritorno a casa loro, parole su misura per rientrare a pieno titolo a sedersi attorno al tavolo della cucina, come ai vecchi tempi: “Il segreto della felicità non è di far sempre ciò che si vuole, ma di volere sempre ciò che si fa” (L. Tolstoj).
A fare le bizze è il figlio più grande, colui che rimase sempre fedele: chissà se avrà avuto mai l’occasione per non esserlo, l’occasione della disobbedienza. Forse, se l’avesse avuta, starebbe pure lui lì a battere le mani, a nascondersi in quell’abbraccio del grande ritorno, a festeggiare il fratello, di essere tornato pure lui a sentirsi chiamare “fratello”. Invece se ne sta fuori, per vantare chissà quale credito, in nome di chissà quale obbedienza. Soffre per l’allegrezza del papà: a lui, fosse per lui, la fedeltà varrebbe più della felicità. Quella felicità lo manda in bestia, non potevano porgergli una vendetta più feroce, un dispetto più grave. Soffre nel vedere il papà rallegrarsi, il fratello sereno, la famiglia ricomposta. Gli rode di essere rimasto fedele ma, forse, mai davvero felice: “È valsa la pena rimanere fedele anche a costo della felicità?”. I lavori di risposta sono in corso.