C’è un potere di interdizione che prevale su tutto, su ogni cosa e quello che più appare mortificante è che sembra prevalere anche sull’interesse generale del Paese. Sembra un potere di interdizione personale, di controllo, come per ribadire una leadership politica personale. Questo è quello che emerge oggi di fronte ai nuovi equilibri politici che si sono creati nel Paese.
Cerchiamo di andare con ordine nello stilare questo giudizio dopo una cronaca tumultuosa, per usare un eufemismo, degli avvenimenti principali e recenti. Il nuovo Governo è nato dopo la crisi di agosto, guidata o voluta dal leader della Lega Matteo Salvini. Ma il processo complessivo di formazione del nuovo esecutivo sembra il testo di uno psicodramma che riserva, settimana dopo settimana, sempre un nuovo colpo di scena.
Forse qualcuno sapeva tutto già da molto tempo, aveva visto i segni premonitori di una crisi imminente e poi di una ricomposizione completamente diversa del quadro politico, o meglio della geografia politica italiana. Ma il mutamento è stato così rapido, repentino che induce a pensare a una sorta di improvvisazione conclusiva, gestita scompostamente, dopo una lunga “storia” condizionata, forse, dai nuovi poteri nazionali e internazionali che si sono formati, che si sono ricompattati o che sono in una fase di ricomposizione e di nuovi accordi o contrasti.
Insomma, Giuseppe Conte succede a se stesso come primo ministro, di marca “cinquestelle”. Passa con una disinvoltura incredibile da una maggioranza caratterizzata fortemente a destra con la Lega di Salvini, a una maggioranza parlamentare caratterizzata a sinistra, almeno per formazioni politiche, vale a dire presiede il nuovo esecutivo (Conte 2 o Conte bis) con il Partito democratico, un rappresentante dei vecchi scissionisti del Pd di sinistra (Roberto Speranza) e altre figure di contorno.
Il “polverone” politico esplode in un primo momento, platealmente, soprattutto, anche se non in modo decisivo, al Parlamento europeo, quando i “cinquestelle” votano per Ursula von der Leyen e la Lega si schiera contro, sanzionando sull’asse dell’antico sovranismo giallo-verde una spaccatura decisiva. Non a caso Romano Prodi comincia a “predicare” la “maggioranza Orsola”.
Ma siamo solo all’inizio dello psicodramma italiano. Perché prima della formazione ufficiale del Conte 2 o Conte bis, c’è una serie di ripensamenti che fanno quasi impressione: basta rileggere le dichiarazioni fatte e poi smentite, nel giro di poche settimane, dai protagonisti di questa stagione politica italiana. Ci sono contraddizioni da autentici falsari, nemmeno da bugiardi. Non siamo né al machiavellismo di chi non ha studiato il grande segretario fiorentino, né alla politica politicante, tanto meno ai “florentin” di marca francese, neppure al vecchio trasformismo italiano. Abbiamo battuto ogni record. Comunque, alla fine il governo della “maggioranza rovesciata” ottiene la fiducia alle Camere e giura davanti al Presidente della Repubblica.
Tutto finito? Neanche per sogno. Non passano neppure ventiquattro ore dall’insediamento del nuovo esecutivo e sulla sinistra, cioè in una parte della nuova maggioranza, si crea una scissione a freddo che, per i tempi in cui è maturata, lascia tutti esterrefatti. In sostanza, Matteo Renzi, il vecchio segretario del Pd, annuncia la sua uscita dal Partito democratico. È il Renzi “enfant prodige” che ha navigato sulle montagne russe: dal 40 percento alle europee del 2014 fino alla sconfitta in un referendum decisivo, in modo clamoroso, determinando così una crisi del Pd che scende sotto il 20 percento.
Di fatto, con un’intervista poco convincente, piena di risentimenti personali malamente mascherati, sostenendo di essere comunque sempre un “amico” del Pd e della maggioranza di governo, Renzi annuncia una scissione lacerante. È la scissione del partito che doveva ereditare e rinnovare la tradizione della sinistra italiana. In questo modo, il rimescolamento avviato nella prima decade di agosto con la crisi aperta da Salvini, viene aggiornato con un altro rimescolamento perché Renzi ha perso la carica di segretario del Pd, ma non il controllo dei gruppi parlamentari.
A questo punto, se si esaminano freddamente i numeri della maggioranza alle Camere, ci si accorge che, tra dissidi interni ai partiti, posizioni differenziate nei movimenti e scissioni che maturano nel giro di 24 ore, qualsiasi deliberazione di governo, dalla scelta politica a una decisione di routine, diventa un azzardo che deve tenere conto di possibili e probabilmente inevitabili veti incrociati.
Si parla da tempo di una frammentazione sociale, di una solitudine endemica nella società post-industriale, definita sbrigativamente società dei consumi. Ma tutto questo sembra solo il riflesso più ampio dello sfaldamento che esiste nel sistema politico, nella frammentazione delle aggregazioni democratiche, nel prevalere delle posizioni di potere e di interesse personale sugli interessi collettivi. Il rischio che corre oggi la democrazia parlamentare è molto alto. Lo psicodramma italiano, in un Occidente in pieno subbuglio, è una “spia rossa” della grande crisi che ha colpito la democrazia liberale parlamentare.
Anni fa si parlava spesso del tunnel della crisi economica e qualcuno ogni tanto spiegava di vedere la luce in fondo al tunnel. Ma c’è un altro tunnel, quello che sta ingabbiando le istituzioni democratiche. E la partita a questo punto diventa ancora più difficile.