Gli spagnoli torneranno a votare a novembre. Quattro elezioni in quattro anni. Le domande abbondano. È una catastrofe tornare alle urne? C’è qualcosa nel DNA dei nuovi politici spagnoli che gli impedisce di raggiungere accordi come accade invece in altri Paesi? Il sistema dei partiti emerso dopo la crisi e dopo i casi di corruzione del Pp ha causato ingovernabilità? Quali conseguenze ha questo ritorno al voto?

L’emergere di Vox alle elezioni di aprile ha portato a cinque il numero di partiti nazionali con rappresentanza parlamentare. Solo nelle prime elezioni democratiche del 1977 era successo qualcosa di simile. Dall’inizio degli anni ‘80 fino alle elezioni del 2015, il centrosinistra (Psoe) e il centrodestra (Pp) si sono alternati al potere con maggioranze assolute oppure semplici, sostenute dai nazionalisti baschi e catalani. Questi ultimi non avevano ancora optato apertamente per l’indipendenza. Quattro anni fa, dopo i sacrifici richiesti dalla crisi e dalla corruzione, il sistema dei partiti si è frammentato a destra e sinistra con la comparsa di Ciudadanos e Podemos.

Ma non c’è nulla nel sistema che impedisca la formazione di maggioranze. Il Pp e il Psoe, i due partiti più classici, hanno subito importanti sconfitte quando hanno perso il potere, ma poi si sono ripresi. I popolari ora sembrano essere sulla buona strada per riuscirci ancora. E la struttura ideologica è abbastanza classica (sinistra-sinistra, centro-sinistra, liberali che possono fare da cerniera e centro-destra). Non c’è una sorta di maledizione nascosta e una resistenza generale al dialogo. Nel 2015, si è dovuti tornare al voto perché il leader dei socialisti, Pedro Sánchez, ha rifiutato – con un’opzione molto personale – di facilitare la nascita di un Governo Rajoy. E nel 2019 non c’è stata alcuna investitura per la personalissima scelta di Sánchez di non negoziare seriamente gli appoggi necessari e per l’impegno molto personale di Iglesias, il leader di Podemos, nel provare a entrare nell’esecutivo. E per l’opzione molto personale del leader di Ciudadanos, Rivera, che ha preferito cercare di essere il leader dell’opposizione. Alcune di queste opzioni sarebbero state sicuramente diverse se Sánchez non fosse arrivato al governo con il sostegno dell’indipendentismo catalano e non avesse cercato i suoi voti per un certo tempo.

La ripetizione delle elezioni ha reso la classe politica la seconda preoccupazione degli spagnoli, ma non provoca un allontanamento dai partiti. Questo è ciò che mostra una ricerca della Fondazione BBVA, che confronta le attitudini in Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna. Gli spagnoli sono quelli che più pensano che i politici si dedichino ai loro interessi e non al bene comune (82%), superati solo dagli italiani (87%). Ma la percentuale di spagnoli che afferma di non identificarsi con i partiti tradizionali è la più bassa tra i paesi circostanti, ben al di sotto dell’Italia, che è al massimo. Il 23% degli spagnoli afferma di non essere interessato alla politica, ma è una percentuale identica alla media. La valutazione della democrazia è 4,6 su 10 (simile a quella dei paesi circostanti), ma è migliorata dal 2012, malgrado il ritorno al voto.

Nonostante la quasi unanimità nella valutazione negativa dei politici, il sistema dei partiti non è messo in discussione, né risulta elevata l’anti-politica. Probabilmente la cosa peggiore del ritorno al voto riguarda altri due effetti collaterali. Il primo è che il Congresso non legifera da quattro anni e non sono state intraprese riforme essenziali nel campo dell’istruzione e per migliorare la struttura economica, la produttività o il mercato del lavoro. I periodi di governo sono stati troppo brevi e le maggioranze inesistenti. Le differenze ideologiche non sarebbero insormontabili. Ma il tentativo di secessione della Catalogna ha assorbito le energie disponibili.

Il secondo effetto collaterale è meno evidente. Le opzioni personali che hanno portato i politici a non raggiungere accordi sono state mascherate da discorsi sistematicamente privi di sincerità e con molta simulazione. Hanno detto una cosa e il suo contrario quasi allo stesso tempo. Il tatticismo e la squalifica dell’altro hanno pervaso il dibattito. Il linguaggio dei leader è stato quasi infinitamente lontano dalla verità più elementare. La sfiducia verso le loro parole e tra di loro ha invaso tutto. Ed è difficile pensare che questi esercizi non abbiano finito per permeare una società con evidenti debolezze.

La Spagna è un Paese con una scarsa spina dorsale associativa e con tre forme preferenziali di partecipazione politica: voto, manifestazioni e scioperi. A ciò si aggiunge il fatto che gli spagnoli hanno la mentalità più statalista di chi li circonda (il 76% pensa che lo Stato sia il principale responsabile di un tenore di vita dignitoso per tutti).

In questo contesto, con poca mediazione sociale, è facile che la mancanza di parole di verità e la sfiducia vengano trasmesse ovunque. Infatti, secondo i dati della Fondazione BBVA, la fiducia interpersonale si è in qualche modo ripresa, ma è a livelli molto bassi, come in Italia e in Francia. C’è già un 30% di spagnoli (e ciò non accade nei paesi intorno) che pensa di non potersi fidare per niente o molto poco delle altre persone. La prima politica oggi per gli spagnoli è ritrovare la fiducia.