Secondo i sondaggi delle ultime settimane, sempre considerando il valore relativo che possono avere, resta fissa, immobile, una proporzione che spiega la concitazione del dibattito politico italiano: sei italiani su dieci sono contrari all’attuale governo, il Conte 2 o Conte bis.

I tratti dominanti della situazione italiana restano, a ben vedere, l’inquietudine e l’incertezza, unite a una mancanza quasi cronica di speranza, nonostante gli sforzi degli esponenti della nuova maggioranza di presentarsi come un nuovo esecutivo che si dovrebbe distinguere: per un rinnovato ruolo di primo piano dell’Italia in Europa dopo un periodo di isolamento; per un impegno riformatore all’interno del Paese; per una dialettica politica dove ci si confronta e non ci si scontra continuamente con toni sempre più accesi.

Guardando quello che sta avvenendo, l’obiettivo di Giuseppe Conte e del suo governo giallo-rosso sembra un’impresa impossibile. E anche se è doveroso aspettare almeno i primi risultati dell’azione governativa, la sfiducia complessiva resta il tratto dominante.

Il fatto è che gli italiani sembrano essere stati investiti da una sorta di “ciclone politico” di cui non trovano che sintetiche e insufficienti spiegazioni: uno stop al sovranismo autoritario di Matteo Salvini; il rifiuto di andare alle urne; la necessità di affrontare la manovra finanziaria con una maggiore “comprensione” europea. Troppo schematica la spiegazione del grande ribaltone. A cui ha contribuito lo stesso Salvini, che era il bersaglio principale.

Le risposte, insomma, non sono soddisfacenti, non esauriscono i dubbi di una politica che da tempo si è trasformata palesemente in antipolitica a “tutto tondo”. In questi ultimi giorni si sono fatti paragoni tra il governo Conte con il vecchio pentapartito che concluse il ciclo della cosiddetta Prima Repubblica. Ma se si va a guardare l’operato solo del settimo governo Andreotti, quello che dura fino al luglio del 1992, si trova uno schema politico con una sua logica, con partiti che occupavano spazi di rappresentanza di determinate formazioni sociali e che riuscivano a trovare una sintesi unitaria, politica, anche all’interno delle varie correnti dei partiti. Erano giochi politici complessi e complicati, in una situazione geopolitica ancora confusa a tre anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla conclusione ufficiale della Guerra fredda.

Ma ora è difficile trovare una logica politica, senza un centro che sia riferimento principale e cuscinetto indispensabile contro le polarizzazioni estremistiche. Non dimenticando i riferimenti internazionali che stanno mutando e non hanno ancora trovato un assestamento.

Alla fine, nel giudizio complessivo, il governo Conte appare più che altro come l’involuzione finale dell’antipolitica cominciata con la svolta di Silvio Berlusconi nel 1994, di fronte alla para-comica “macchina da guerra” di un orfano comunista come Achille Occhetto e dei suoi avventurati alleati. Persino il termine trasformismo, scelta italiana ottocentesca e discutibile, non coglie la natura di questa nuova maggioranza.

Più realisticamente oggi, con la nuova maggioranza giallo-rossa, si possono notare altri obiettivi, come il grande ricambio delle nomine importanti nei grandi enti di Stato, che arriverà nella prossima primavera, e poi il protagonismo personale, la nuova natura della leadership, che è diventata quasi un’ossessione nel mondo dei protagonisti dell’antipolitica, dove ben altri poteri dettano regole e leggi. Si guardi solamente alla moltiplicazione rapida dei leader e dei partiti.

Nella sequenza della cronaca delle ultime settimane Matteo Renzi sbaraglia il campo, per tempismo, con il partito nuovo che si stacca dal Partito democratico. Ma l’operazione è stata preparata da mesi. Lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non è probabilmente lontano, per una sua definitiva consacrazione politica, dalla “fondazione” di un suo partito, mentre il campo occupato dal Movimento 5 Stelle si impoverisce e si divide al suo interno e arriva anche l’ipotesi di una scissione che Luigi Di Maio potrebbe mettere in atto perché la sua leadership attuale nel M5s è duramente contestata.

A ben guardare, neppure la Lega è esclusa da lacerazioni interne. La battaglia sulle autonomie è tutt’altro che dimenticata e diversi esponenti di primo piano ritengono che la Lega di Salvini dovrebbe ritornare Lega Nord, come ai tempi del senatùr Umberto Bossi, onorando (si fa per dire) l’articolo primo dello statuto che pone l’obiettivo dell’indipendenza della Padania.

Ma questo proliferare di leader e di partiti, o di posizioni differenziate, nel regno dell’antipolitica dominante con la carenza di autentiche scelte politiche ricorda quasi una struttura feudale, dove ognuno cerca di delimitare i confini di un suo territorio ed esercitare la sua influenza. La politica diventa ininfluente, la società feudale può galleggiare, quindi il governo può galleggiare e non governare fino a quando ne ha voglia. I programmi possono essere vaghi, rimaneggiati e non rispettati. Ma in questo modo sembra che sia nata la “casta” dei feudatari del XXI secolo, la politica dei nuovi feudatari.

Difficile pensare fino a quanto può durare una simile situazione e quali effetti boomerang potrà produrre tra qualche tempo.