Friday, venerdì scorso, era for the future. Oggi, Monday, si torna dopo regolare week-end sui banchi. Delle due una: o si aspetta il prossimo Friday, o si fa un pensierino sul Friday che è già successo. Un de-briefing, per stare nella lingua del Friday. Senza demonizzare e senza esaltare, ma cercando di vagliare e trattenere, se c’è, qualcosa che vale. E senza giudicare Greta Thunberg, poer ninìn, cara ragazzina che intenerisce.
Greta è Greta. Ma palesemente c’è un’Operazione Greta, comunque la si voglia giudicare, ben pianificata con competenze professionali di alto livello e risorse proporzionate. L’obiettivo generalissimo dichiarato è salvare il pianeta. Gli obiettivi concreti e medio o breve termine non sono altrettanto chiari. È indicato un nemico (i potenti della terra, il sistema), ma in concreto il nemico non si sa chi è. Davide è la bambina piccola con la sua fiondina; di Golia sfumano i contorni. Il movimento si crea non sulla base di un’istanza di liberazione rispetto alla società e alla morale borghese, come fu nel Sessantotto, ma sulla base della paura e dell’insicurezza tipiche della condizione esistenziale di oggi, spesso usate, e addirittura provocate per catturare consenso politico.
L’operazione Greta sembra più accostabile a questo modello che alle origini del ’68. In quegli anni un pezzo di sistema cercò di cavalcare a suo vantaggio (culturale, commerciale, politico) un fenomeno di contestazione che esso non aveva creato né immaginato; qui sembra invece che il sistema (o un pezzo di sistema), un potere comunque, abbia pianificato il suo anti-sistema. Per avere tutto sotto controllo e non correre rischi. Il che suggerisce di stare all’occhio.
Ciò però non cancella il problema, quello cioè di perseguire con ragionevolezza e responsabilità una reale ecologia integrale, che va preso molto sul serio. I primi ammonimenti pontifici, per dire, di Giovanni XXIII; tutti i successori lo hanno indicato con forza. Giovanni Paolo II ha detto che per i cristiani “i doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede”. E Francesco ha ripreso alla lettera questa frase.
Poi vengono gli studenti. Sensibilizzare o educare, che differenza c’è? Semplice: si preoccupa di sensibilizzarmi uno che mi vuole conquistare a una causa. Che può anche essere giusta, beninteso. Ha una passione educativa chi vuole il mio bene, la mia felicità. I motivi per cui i ragazzi hanno fatto sciopero possono essere nobili e idealisti per taluni, di conformismo per altri, di comodo per altri ancora. Bigiare humanum est, via. Del resto anche nelle mitiche manifestazioni del sabato pomeriggio anni 70 c’erano militanti duri e puri che si immolavano per la causa, e altri interessati un po’ alla causa, un po’, forse soprattutto, a rimorchiare la compagna giusta con cui mettere in pratica la libertà sessuale tanto rivendicata.
E poi, dai, non è solo questione di bigiare: un ragazzo sente il bisogno di qualcosa per cui appassionarsi, per cui valga in qualche modo la pena. Il bisogno anche di posizionarsi dalla parte dei buoni e dei giusti, dalla parte dove si adombra una speranza per il futuro. Con tutta l’ambiguità che queste pulsioni comportano, da una parte il bisogno di darsi a qualcosa, dall’altra magari il non mettere in discussione se stessi. Appunto: qui è messa alla prova la passione educativa. Dando strumenti ed esempi che aiutino l’introduzione alla realtà, ma presa sul serio, con tutta la domanda che ha dentro e la fatica che richiede. Anche alla realtà del cambiamento climatico.
Anche a scopo educativo, gioverebbe rileggere l’enciclica di Francesco. Già al capitolo primo essa mette in relazione la conoscenza con l’implicazione di sé: “trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo e così riconoscere il contribuito che ciascuno può portare”. Il sesto e conclusivo capitoletto è dedicato all’educazione, “sfida centrale”: “Ogni cambiamento ha bisogno di motivazioni e di un cammino educativo”.
La lettera del papa descrive i tratti di un’ecologia integrale, inseparabile dalla questione umana e sociale, e dalla nozione di bene comune. E ancora una indicazione che calza proprio a pennello sulle nostre abitudini: “La felicità richiede di saper limitare alcune necessità che ci stordiscono, restando così disponibili alle molteplici possibilità che offre la vita”.
È una posizione che culturalmente non può essere strumentalizzata. Può essere eventualmente neutralizzata sia da non credenti che non accettassero il dialogo auspicato, sia da cristiani, semplici o graduati, che il magistero dei papi sono usi a non filarselo. La cosa più amara è perdere per autogol.