Record di ascolti di Tolo Tolo e Don Matteo. Il film di Checco Zalone è stato visto, sino a sabato sera, da 5,5 milioni di persone; la prima puntata 2020 della ventennale (!) fiction di Terence Hill e Nino Frassica, giovedì scorso, da 7 milioni. Il tema è: com’è che nell’Italia del quotidiano scontro manicheo, dalla politica ai social, milioni di persone si appassionano a un film e a una fiction che sono quanto di più antimanicheo si possa vedere da trent’anni a questa parte? È un altro Paese, o siamo double-face?

Il film di Zalone tocca un tema fra i più divisivi, l’immigrazione, in maniera libera e strafottente, nel senso che se ne strafotte proprio dello schieramento destra-sinistra. Non nasconde il disagio per il diverso e però lo racconta con sguardo ironico e simpatetico. Rovescia i ruoli e scambia le situazioni dell’italiano e del migrante: nessuno è senza problemi o senza limiti, siamo tutti un po’ buoni e un po’ stronzi. L’impudente Zalone toglie le foglie di fico dalle pudende: quelle degli aperturisti con attico in centro mai avranno le narici disturbate dall’odore acre di aglio e spezie che vien su dalla tromba delle scale; e alle pudende degli intransigenti del no-pasaràn, che considerano il Mediterraneo come il Piave dei sacri confini: non passa lo straniero.

La foglia di fico è l’ipocrisia. Con essa schermiamo la vergogna che ci prende quando non ci perdoniamo di non piacere a noi stessi o di non piacere agli altri, temiamo di non apparire al livello degli standard richiesti e ci ripariamo nella tribù di chi ha ragione a prescindere. Inoltre nel film non c’è la satira usata come coltellata alla schiena del nemico: nel film non c’è il nemico. E l’ironia è anche auto-ironia:  Zalone toglie la foglia di fico anche e soprattutto a se stesso-protagonista. Appare l’io non schermato, grezzo, “cozzalone” si dice in Puglia (da cui Checco Zalone), limitato e bisognoso. Le sequenze ti propongono su lui e gli altri uno sguardo ad un tempo disincantato e benevolo.

Così il film apre una piccola crepa nella dura scorza dell’ipocrisia e della vergogna. Non è poco. In fondo è qualcosa che nel profondo desideriamo, magari a nostra insaputa.

La fiction di Don Matteo corrisponde al desiderio di una giustizia buona. E anche questo nel profondo desideriamo, magari sempre a nostra insaputa. Ha commentato Nino Frassica, il maresciallo Cecchini: “Quando finisce la puntata, i telespettatori dicono: ‘Ma allora esiste gente per bene’. Dopo il tg chiudi la porta a chiave e non esci più; dopo don Matteo apri le porte di casa”. Prendiamolo pure come un auspicio più che descrizione della realtà: va bene lo stesso. Il perno è una tonaca, dentro cui c’è un uomo che conosce e ama ciò che è umano. Umanità, fede e ragione, sono le caratteristiche della sua figura e gli strumenti della sua indagine. Quello che in Tolo Tolo è disincanto qui è più esplicitamente amore alla verità, e la benevolenza dello sguardo diventa metodo dei rapporti: apertura, sforzo di comprendere, accoglienza, giudizio segnato dal senso della misericordia.

Per capire che la sostanza di don Matteo non è buonista, occorre ricordare che esso è notoriamente ispirato a padre Brown di Chesterton, scrittore anglicano convertito al cattolicesimo, nel segno della positività, del “desiderio  – ha notato Paolo Gulisano, vicepresidente della Società chestertoniana – di essere uomini vivi, cercatori della verità”.  Così l’indagine di padre Brown (e anche di don Matteo), non è solo poliziesca, ma anche un’indagine sull’uomo, sulle sue passioni, i suoi comportamenti. Che ciò sia ragionevolezza più compiuta e non buonismo in saldo ce l’ha detto un insospettabile intellettuale: Antonio Gramsci, primo capo dei comunisti italiani. In una lettera dal carcere scrive: “Sherlock Holmes è il poliziotto protestante che trova il bandolo di una matassa criminale partendo dall’esterno, basandosi sulla scienza, sul metodo sperimentale, sull’induzione. Padre Brown è il prete cattolico, che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità”.

È un’altra Italia quella che ama Cozzalone e Chesterton-Don Matteo rispetto a quella manichea? O sono gli italiani double-face? Credo buona la seconda. C’è una faccia, quella del desiderio buono nascosta e silenziata. Bene che venga vista, messa in luce, riconosciuta, assecondata, provocata da un’ipotesi di risposta. A questo proposito ancora ci soccorre il prete-investigatore di Chesterton nel racconto L’oracolo del cane, che l’ipotesi la gioca: “Il primo effetto di non credere in Dio è il perdere il senso comune e non poter vedere le cose come sono … e tutto questo perché si ha paura di poche parole: Egli si è fatto Uomo”.