Il nuovo Governo spagnolo sarà il terzo con populisti di sinistra al suo interno nell’Unione europea. I due precedenti fanno sì che la situazione sia abbastanza inedita. Fino allo scorso luglio, in Grecia ha governato Syriza. Ma il populismo greco era diventato negli ultimi anni un centrosinistra convenzionale. Di fatto, Tsipras ha fatto ricorso a formule economiche ortodosse. Il Paese è tornato a un sistema politico bipartitico. Il caso dell’Italia con il Governo 5 Stelle-Lega non può essere preso come riferimento. Sarebbe troppo semplicistico descrivere M5s come un movimento populista di sinistra e la “convivenza” con Salvini lo ha trasformato in un esperimento particolare.
In Spagna Podemos arriva al Governo dotato di un forte apparato ideologico e di un patto con il Psoe che, se applicato, comporterà una significativa espansione della spesa, una controriforma del mercato del lavoro e un aumento delle tasse. L’erratico Sánchez, fin dai primi passi si è mostrato ossessionato dal non perdere terreno nei riguardi di Podemos, ha nominato diversi ministri economici di “pura razza” socialdemocratica che avrebbero potuto sedere in un gabinetto di centrodestra. Il leader socialista sembra voler riguadagnare la buona considerazione che aveva tra i leader europei (specialmente Macron) prima di allearsi con Iglesias.
La brutta esperienza del socialista pre-populista Zapatero è ancora viva. L’ex Presidente socialista, nel mezzo di una crisi, fu costretto a riformare urgentemente la Costituzione per evitare una crisi dell’euro dopo aver fatto salire il deficit. In materia economica, si può prevedere che vi saranno molte scaramucce, che il mercato del lavoro diventerà più rigido, che aumenterà nuovamente in modo significativo lo squilibrio dei conti pubblici, che determinati incrementi delle tasse causeranno paura tra gli investitori. Nel periodo in cui Podemos e Psoe saranno al governo verranno ritardate le riforme educative e strutturali che ci consentirebbero di avanzare verso una maggiore modernizzazione. Riforme che il Pp non ha intrapreso con decisione, in parte perché la crisi ha occupato l’agenda. Ma non è difficile immaginare, com’è accaduto in Grecia e in Italia, che Bruxelles fungerà da salvaguardia contro gli eccessi.
Un’altra cosa è l’ambito delle politiche ideologiche, identitarie e antropologiche. Il sostegno dell’indipendentismo catalano dell’Erc spingerà il Governo verso alcune politiche di identità territoriale ai limiti della Costituzione. Forse li supereranno anche. L’identitarismo non si limita però alla questione catalana. Iglesias, il leader di Podemos, che è l’uomo ideologicamente forte, ha detto in modo chiaro nel dibattito sull’investitura: “Ci attaccheranno non per quello che facciamo, ma per quello che siamo”. Una frase così è una dichiarazione di intenti perché pone la questione politica non nel campo contingente della gestione, della risoluzione dei problemi, ma nel campo dell’ontologia. Iglesias arriva a dire che sono le vittime che sono arrivate al potere: le vittime del capitale, del patriarcato, della casta, del clericalismo, delle oligarchie. C’è un’inimicizia invincibile (espressa in categorie ideologiche), una riparazione che si verifica solo con la sconfitta dell’altro.
Podemos è convinto di essere arrivato al Governo non per fare politiche per tutti, ma politiche identitarie (donne, giovani, ecc.) che sono legittimate ex ante. Quando la politica diventa antropologia non può essere giudicata, non si riferisce al fare ma all’essere. E questo è ciò che spiega un programma di Governo che include un certo tipo di educazione sessuale affettiva, alcune politiche di memoria storica.
L’esperimento del socialista pre-populista Zapatero funziona già come antidoto. Tra gli analisti più esperti si ricorda l’errore commesso nella reazione contro i nuovi diritti approvati dal Governo tra il 2003 e il 2010. Sicuramente quei nuovi diritti non erano stati concordati con tutta la società spagnola, ma le manifestazioni nelle strade e alcune forme di risposta servirono solo ad alimentare l’azione-reazione. Restano pochi nuovi diritti da proclamare e i loro critici, ad eccezione di alcuni settori minoritari, riconoscono più facilmente che è scomparso il substrato che ha reso possibili molte evidenze sulla vita e sulla convivenza. Non si può chiedere al diritto di mantenere in piedi ciò che la cultura ha fatto crollare.
Il ricordo dell’azione-reazione, che ha alimentato la polarizzazione nell’era Zapatero, ha portato alcuni a invocare moderazione nell’opposizione al nuovo Governo. Ed è conveniente e salutare invitare a usare la ragione di fronte all’esaltazione sentimentale, è necessario formulare una critica che non delegittimi un’opzione democratica come le altre. La difesa della libertà è sempre necessaria e, arrivasse una situazione estrema, potrebbe essere necessario invocare l’obiezione di coscienza.
Ma il richiamo alla moderazione, sempre conveniente, non è sufficiente. La sfida di fondo è mostrare, con discorsi e fatti (e in questo campo la società civile ha un lavoro immenso da fare) che l’inimicizia ideologica non è invincibile, che la funzione principale della politica non è la riparazione del danno attraverso la sconfitta dei “colpevoli del danno”. E per questo è paradigmatico fare qualcosa, risolvere un bisogno comune, insieme a coloro che sono ideologicamente diversi. Più che mai è necessario dimostrare che la differenza non è mai assoluta, che la differenza può essere un’opportunità.