Nella stasi di governo in attesa del voto in Emilia-Romagna si è riacceso il dibattito sulle pensioni: complice anche la ritirata tattica del presidente Emmanuel Macron dalle piazze francesi nello scontro su una riforma previdenziale modellata su quella italiana del 2011.

A Roma l’oggetto del contendere resta intanto Quota 100, la misura introdotta dal Conte-1 a parziale correzione della riforma Fornero e mantenuta dal Conte-2 nonostante il cambio di maggioranza.

Una voce come quella dell’economista Tito Boeri – presidente dell’Inps con i precedenti esecutivi di centrosinistra – è tornata a chiedere con decisione la cancellazione immediata e integrale della “Quota”: l’Italia, ha ripetuto, sta soprattutto tradendo le sue generazioni più giovani.

Ma sul tema hanno ripreso fiato anche le organizzazioni sindacali, ventilando una parziale stabilizzazione del meccanismo di ritiro anticipato, già ribattezzato “Quota 102”. Cgil, Cisl e Uil rimangono con molta evidenza preoccupate dalle crisi industriali che tendono a esodare lavoratori più o meno anziani; e dalla lentezza con cui la ripresa rigenera occupazione giovanile non precaria.

Al tavolo del confronto è seduto un ingombrante convitato di pietra, dal profilo economico non minore di quello politico: il Reddito di cittadinanza. Il vessillo politico-economico di M5s, forza di maggioranza e continuità nel doppio governo Conte, è stato naturalmente blindato dalla manovra. Ma è stata così impedita anche la ridiscussione di Quota 100.

La nuova maggioranza è stata fermata non solo dal timore di accuse di manovre ritorsive verso le costituency elettorali della Lega, ma anche dall’oggettiva compenetrazione fra Rdc e Quota 100. Non si può ripensare l’una e non l’altro, figli entrambi di uno stesso approccio assistenzialistico di politica economica.

Sia Rdc che Quota 100 vanno senza ombra di dubbio a “consumare”, non a “investire” risorse pubbliche. Sono pensati per curare sintomi ed effetti di crisi, a fatica e nel corto periodo. Non sono stati concepiti per affrontare le cause della lunga stagnazione italiana: anzi, sono un mezzo per rinviare ancora una sfida obbligata. Neppure l’intervento tecnocratico del governo Monti nel 2011, d’altra parte, è riuscito a “salvare l’Italia”: nonostante annunci certamente in buona fede politica.

Lo stesso Financial Times, pochi giorni fa, ha riconosciuto che quel passaggio-simbolo della stagione dell’austerity europea aveva il fine ultimo di costringere un Paese come l’Italia a rispettare i parametri di Maastricht: non quello di rimettere l’Italia su un sentiero economico-finanziario virtuoso. Quasi un decennio dopo l’Italia resta malata: anche se – almeno al momento – non sembra esserci più lo spread ad allarmare né la Ue a prescrivere terapie d’urto.

Riaprire la discussione sul sistema previdenziale è corretto e probabilmente doveroso. E non c’è alternativa a che essa si svolga dentro il Governo, in Parlamento, soprattutto fra le parti sociali. E’ un bene, anzi, se i corpi intermedi colgono l’occasione per riprendere il loro ruolo nell’Azienda-Paese.

Ma è appunto l’intera Azienda-Paese a dover essere rimessa correttamente al centro del dibattito. Con le usuali domande-chiave: quanto Pil bisogna tornare a produrre prima di pensare a distribuire Pil che non c’è? Come e da chi quel Pil va prodotto? Con quale ruolo politico-economico per lo Stato nel 2020?