Chissà se in qualche stanza dei moderni “feudi” italiani, le Procure della Repubblica, c’è una traccia di questo importante documento europeo in cui tra l’altro si specifica: “E’ anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine – i cosiddetti “examining magistrates” – e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto”.
Questo inciso è tratto da una risoluzione, la numero 112/97 approvata il 4 luglio del 1997 dal Parlamento europeo, in una delibera sul rispetto dei diritti umani nell’Unione europea. Tra tanti magistrati progressisti italiani, gli europeisti non dovrebbero mancare! Eppure non tutto sembra semplice e lineare.
Anche su questa vicenda della riforma della giustizia, sulla separazione tra inquirenti e giudicanti, esistono da anni problemi che sembrano insolubili in Italia e che neppure l’attuale ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, “rapidissimo” a condannare la prescrizione come se fosse un reato al quale si appellerebbero i corrotti, non riesce o probabilmente non vuole risolvere l’annoso e irrisolto problema della separazione delle carriere.
Comunque, Bonafede non è il solo oppositore a una reale riforma della giustizia. Si pensi che in Italia c’è voluto quasi mezzo secolo perché il principio del “giusto processo”, sancito fin dagli anni Cinquanta dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), venisse inserito dal Parlamento italiano tra i princìpi fondamentali della nostra Costituzione con il nuovo articolo 111.
E per fare questo ci sono volute anche centinaia di sentenze della Corte di Strasburgo, che hanno bollato il sistema giudiziario italiano per violazione dei princìpi di garanzia dei cittadini.
Proprio in questo periodo in cui la prescrizione è stata mandata in pensione, ridimensionandola e quasi annullandola (e pensare che siamo nella patria di Cesare Beccaria, il nonno di Alessandro Manzoni, e non solo), non si riesce a predisporre un’organica riforma della giustizia, non solo quella civile, ma neanche quella penale, che ha un codice, di fatto, ancora con la firma di Alfredo Rocco, il guardasigilli di Benito Mussolini
Il 27 dicembre 2019, proprio per commentare lo stato della giustizia italiana, Angelo Panebianco ha scritto un fondo sul Corriere della Sera con un titolo choc: “L’equilibrio dei poteri che abbiamo perduto”. Scriveva Panebianco: “E’ questo della prescrizione l’ultimo atto di un movimento iniziato molto tempo fa, teso alla penalizzazione integrale della società italiana, alla affermazione di un panpenalismo che soffoca la società senza peraltro rimediare affatto a quei mali che il panpenalismo medesimo pretende di curare”.
Panebianco, nel suo articolo, colpisce duro. Parla di “repubblica giudiziaria”, richiama la Costituzione dove la magistratura è definita un “ordine”, così come aveva ricordato polemicamente, tanti anni fa, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Le reazioni non si sono fatte attendere, soprattutto da parte di molti pubblici ministeri, che sostengono un’interpretazione diversa: la magistratura non è un ordine, ma un potere, forse facendo un po’ di confusione.
E’ soprattutto l’Associazione nazionale dei magistrati che si oppone risolutamente alla separazione delle carriere. E’ vero che è passato molto tempo dai teorici della tripartizione dei poteri come Montesquieu e che, in questo periodo, sia più di moda Rousseau (tanto amato dai giacobini di ogni epoca), ma gli Stati democratici hanno applicato i suggerimenti di Montesquieu e Tocqueville, che sostenevano senza esitazione che se il pubblico accusatore e il giudice avessero fatto lo stesso mestiere ci si sarebbe trovati di fronte a un abuso.
E’ un concetto e un principio di democrazia che evidentemente spaventa i magistrati italiani, soprattutto i pubblici ministeri, diventati protagonisti di sconfinamenti nel campo della politica, dell’economia, del costume pubblico, investiti inoltre dell’obbligatorietà della legge penale. Di fatto, la penalizzazione della società, che descrive Panebianco, comincia con l’avviso di garanzia, il sospetto, la lunghezza del processo e l’onere della prova che è a carico dell’imputato, mentre in qualsiasi Stato democratico le prove si stabiliscono nel corso del dibattimento processuale e l’onere della prova è a carico della pubblica accusa. L’imputato può essere condannato solo dopo un “giusto processo” e “oltre ogni ragionevole dubbio”.
E’ questa la ragione per cui lo Stato democratico di diritto prevede il giudice terzo, mentre difesa e accusa, sullo stesso piano, discutono e dibattono ad armi pari dell’eventuale reato commesso. La separazione delle carriere discende da questa serie di considerazioni maturate da tempo immemorabile, persino nel diritto romano.
Ora, in Italia, mentre si parla di una riforma organica della giustizia, ci si divide nella commissione della Camera e si rispolverano i soliti argomenti. Contro la separazione delle carriere ci sono naturalmente l’Associazione nazionale magistrati, come si diceva, ma anche alcune forze politiche e diversi commentatori che ritengono che la separazione delle carriere sia stata addirittura un obiettivo del maestro venerabile della P2, Licio Gelli.
A questo punto, si può ritenere che Gelli avrebbe influenzato non solo Stati come Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Germania e chi più ne ha più ne metta, ma anche giuristi che restano figure di prim’ordine nella tradizione italiana, come gli esponenti del socialismo giuridico, Francesco Saverio Merlino e Leonida Bissolati, o con il pensiero giuridico cattolico di Francesco Carnelutti e quello democratico di uomini come Sergio Cotta e Giuseppe Capograssi. Senza contare la figura di Piero Calamandrei, che ha sempre speso parole sagge sulla terzietà del giudizio, premessa inevitabile alla separazione delle carriere.
Si può dire che se il cospiratore principale era Licio Gelli, il suo più importante avversario storico era stato il ministro mussoliniano Dino Grandi, il più accanito difensore dell’unicità per concentrare potere giudicante e potere requirente in un sola categoria di magistrati.
Ma chi si batte ora contro la separazione delle carriere offende soprattutto il pensiero di un uomo, o meglio di un eroe, come Giovanni Falcone. Ricorda Giuseppe Ayala: “Con Giovanni non discutevamo tanto dell’autonomia e dell’indipendenza del pubblico ministero, ma dell’indubbia anomalia rappresentata dalla unicità delle carriere, estranea, non a caso, a tutti gli ordinamenti dei più importanti paesi democratici”.
Falcone è stato motivatissimo sulla separazione delle carriere: “Comincia a farsi strada faticosamente – diceva – la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi. Su questa direttiva bisogna muoversi. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura”. E sulla cultura del sospetto indiscriminato, Giovanni Falcone fu ancora più tranchant: “E’ solo l’anticamera del khomeinismo”.
Si può quasi scommettere che il “nuovismo” politico riuscirà a non fare alcuna riforma della giustizia, oppure a stenderne una insignificante, magari “nel nome di Falcone”. L’ipocrisia unita all’ignoranza in Italia, soprattutto in un periodo come questo, non ha limiti. Quindi si può prevedere di tutto e di più anche nel campo di una delle giustizie più sgangherate e meno affidabili del mondo.