Ogni proposta che ha come obiettivo il rilancio della scuola merita attenzione e, in ogni caso, se tale proposta serve ad accrescere le risorse e i mezzi realmente messi a disposizione, deve ricevere il nostro plauso.

La situazione della scuola pubblica italiana è giunta a un tal punto di criticità che è impossibile indicare il “bandolo della matassa”, cioè la questione principale da affrontare, quella che da sola e prima delle altre, può risolvere una situazione così compromessa. Solo chi non conosce la realtà – o peggio, la nasconde – può illudersi di possedere la ricetta vincente. Per certi aspetti è diventato così urgente intervenire, che da qualsiasi parte si intende cominciare è giusto farlo.

È con questo spirito che va accolta la recente proposta del Pd, che ha presentato un ”pacchetto” di provvedimenti finalizzati al sostegno della partecipazione scolastica, composto da libri di testo gratis fino alle superiori, aumento degli stipendi degli insegnati, obbligo scolastico fino a 18 anni, interventi a sostegno delle famiglie più povere.

Quello che ha in particolare turbato molti esperti del settore è la proposta di ritornare a discutere dell’elevamento dell’età dell’obbligo. Visti i dati di crescita dell’evasione e dell’abbandono scolastico, soprattutto al Sud, può apparire un obiettivo non alla nostra portata.

La verità è che la divaricazione tra la realtà della scuola pubblica nelle aree più forti del paese (in difficoltà, ma ancora pienamente funzionante) e quella davvero critica della scuola che opera nelle zone depresse del paese è ormai così ampia che sarebbe più onesto prendere atto che non ci sono proposte in grado di andar bene ad entrambe. Anzi, sarebbe ora di avere il coraggio di ammettere che esse vanno affrontare separatamente, senza rinunciare ad un piano ambizioso di recupero della distanza accumulata.

In sostanza, mi sento di dire che nelle aree più esposte al disagio sociale e dove registriamo tassi di evasione dall’obbligo scolastico crescenti, la proposta di portare l’obbligo fino ai 18 anni appare effettivamente un obiettivo velleitario. Cosi come dobbiamo ammettere che dove la scuola si è difesa ed è rimasta in piedi grazie ad un solido tessuto sociale, porsi questo obiettivo non solo è giusto ma potrebbe rappresentare l’occasione per una riorganizzazione complessiva dell’offerta scolastica.

In sostanza proverei – so di sostenere una tesi impopolare – a differenziare gli obiettivi: nelle aree più svantaggiate sarebbe davvero “rivoluzionario” mettere a punto un piano per garantire da subito la presenza della scuola nella vita dei ragazzi, abbassando l’età di ingresso per tutti da 6 a 3 anni, e accompagnare questo progetto con un serio e rigoroso piano di rilancio del “tempo pieno”.

Questo obiettivo invece non ha alcun valore strategico per le aree più forti, dove – grazie soprattutto alle amministrazioni locali che hanno difeso in questi anni i livelli dei loro servizi – esiste già un efficiente “tempo pieno”, ottimi standard di scolarizzazione pre-obbligo – con molti nidi e asili pubblici – ed è stato sviluppato un sistema di “gestione del tempo”, teso ad aiutare soprattutto le esigenze delle mamme lavoratrici.

Le cose stanno così. La scuola ha soprattutto bisogno che qualcuno dica la verità. Negare lo stato delle cose rappresenta la più grave responsabilità politica verso i nostri giovani.

Per questo è utile continuare a ripetere alcuni dati. Ricordare ad esempio che la percentuale di “tempo pieno” in Lombardia sfiora il 92%, mentre è sotto il 10% a Napoli, a Bari, a Palermo. Oppure sottolineare che il tasso di evasione scolastica nel Mezzogiorno – come segnala l’Istat – è tornato a crescere negli ultimi anni in maniera preoccupante. Che abbiamo un problema analogo anche al Nord per quanto riguarda i giovani tra i 15 e il 24 anni, dove circa il 25%, lascia ogni percorso formativo.

Ma al Sud l’abbandono in età scolare continua ad essere molto alto (tra il 15 e il 20%), non certo da paese sviluppato.

Per quanto si possano considerare tutte le attenuante possibili, anche la qualità dei risultati formativi è molto diversa. A riprova di ciò sappiamo tutti che è in costante aumento il flusso di giovani provenienti dalle classi sociali più agiate del Sud verso il Nord e l’estero, in cerca di offerte formative migliori. Questa realtà è la cartina di tornasole di una scuola meridionale al collasso, in grado di accogliere solo i giovani che non si possono permettere di scappare via.

Per questo motivo non si può che auspicare e sperare che effettivamente nel programma dell’attuale governo la scuola diventi la priorità di cui si parla, il settore su cui ci si impegna a concentrare risorse importanti.

Si capisce anche che sia proprio il Pd ad essere particolarmente preoccupato. Dopo la rottura consumata durante gli anni della “Buona Scuola”, nel Pd si cerca disperatamente di riannodare i fili di un rapporto con un mondo che è stato per decenni il proprio punto di forza.

Quello che manca ancora, quello che serve – va aggiunto sommessamente – è una visione “sociale” della scuola. Cioè provare a rimettere la scuola più coraggiosamente al centro dei quartieri, della vita degli adulti, del mercato del lavoro, del dibattito culturale, degli interrogativi sulla tecnologia, della lotta per i diritti, della condivisione e dell’accoglienza.

Per questo servono sia docenti che credono di più nel loro lavoro, sia organizzatori capaci, presi anche fuori dalla scuola. Non possiamo arrenderci e rinunciare a sperimentare soluzioni nuove. La scuola, e con essa tutti coloro che vi operano, deve riconquistare il ruolo che le compete nella gerarchia sociale, deve ritornare ad essere per le famiglie lo strumento principale per realizzare i sogni dei propri figli, il motivo più importante per cui si guarda al futuro senza rimpiangere il passato.