NEW YORK — Happy New Year! Per qualche giorno continueremo a scambiarci questo augurio, con tutti, anche con ignoti passanti che incrociamo per strada (non so da voi, ma qui si fa). Un buon auspicio che non fa male e non si nega a nessuno, civilmente universale, politicamente neutro e soprattutto non discriminatorio a differenza del “fazioso Merry Christmas” che ormai solo le canzoni di stagione di cinquant’anni fa non si vergognano di proclamare senza equivoci.
E poi in fondo si tratta solo di un fenomeno passeggero di breve durata, tipo un leggero raffreddore: ci faremo gli auguri di buon anno per un paio di giorni e via, finita lì. Ci penseranno compleanni ed altre festività a riesumare questa dinamica del farsi gli auguri. È vero anche che c’è chi celebra questa ricorrenza del nuovo anno in momenti diversi non mostrando particolare interesse verso il calendario gregoriano (cristiano pure quello, come il Natale). Tuttavia osservare una diversa data non cambia la sostanza, fatta di attesa e speranza per quello che il nuovo anno potrà portare. Allora, Happy New Year a tutti!
Già, “Happy”, felice. Ma cos’è che potrà rendere questo 2020 felice? In cosa consisterebbe questa cosa che ci auguriamo vicendevolmente?
“Felice” è una parola grossa, tanto grossa da suonarci un pochino vuota. Magari si dice tanto per dire. Siamo sette miliardi e mezzo sul pianeta, uno più uno meno. Verrebbe ragionevolmente da pensare che ognuno si auguri certe cose, si immagini, attenda certe cose per l’anno che verrà. Sette miliardi e mezzo di “shades of happiness”, sfaccettature di felicità: da chi vorrebbe essere rieletto Presidente degli Stati Uniti a chi spera semplicemente di trovare un lavoro, da chi cerca di non finire sotto un bombardamento a chi si aspetta la vittoria in campionato della squadra del cuore, chi attende un significativo balzo avanti in carriera e chi spera di trovare pane ed acqua per sopravvivere, o aspetta un farmaco, un intervento chirurgico per sconfiggere la malattia.
Quando penso a queste cose – e più invecchio più mi capita – insieme al senso di vertigine che mi prende, mi viene sempre in mente George Bailey, il protagonista di It’s a Wonderful Life. Lo dico ogni anno di questi tempi: guardatelo. L’avete già visto e non ci avete trovato niente di speciale? Riguardatelo. Perché George Bailey con la sua voglia di viaggiare, studiare, scoprire, costruire è l’immagine del desiderio di felicità come totalità d’orizzonte. George Bailey non cerca “una cosa”, cerca tutto! Un infinito ed irrefrenabile desiderio di “infinito” che si proietta su tutto ciò di nuovo che si scopre.
Ma George Bailey è anche la rappresentazione di un uomo costantemente bastonato dalla realtà. Mai che gliene vada una come si era augurato. Tutte le cose da cui vorrebbe scappare per spiccare il volo lo rincorrono e lo riacciuffano. La realtà non sembra interessata ad altro che a fargli passare la voglia di vivere, calpestando a ripetizione quella che sembrava essere la grande promessa della vita. Come va a finire? No, non è questione di come va a finire, è questione di come si vive quel che c’è da vivere, senza scappare. La realtà è testarda, ma non tradisce, la realtà bussa alla porta della nostra felicità e ci chiede di essere abbracciata.
Col nuovo anno ci possiamo augurare mille cose sacrosante per noi e per questo mondo, ed è bello e giusto farlo, ma che il mio 2020 sia felice davvero sta tutto lì.
Happy New Year!