Anni fa la grande differenza tra Mezzogiorno e Nord del Paese si poteva leggere con maggiore semplicità. Il divario economico era enorme, ma restava di base una idea di dignità e di cultura che emendava almeno in parte le differenze. Cultura, umanità ed anche sensibilità diverse costruivano una narrazione positiva del Paese in cui dal Mezzogiorno venivano stimoli ed intelligenze utili e dal Nord produttivo risorse e dinamismo. Il mix aveva una sua naturale declinazione nel far concepire il Paese tutto come un sistema complesso in cui ogni territorio dava il proprio contributo. Nelle università le eccellenze erano distribuite in maniera uniforme e la presenza dello Stato tentava di offrire una soluzione macroeconomica. Le città del Nord e del Mezzogiorno offrivano ciascuna un proprio volto, una priorità unicità, senza che ci fosse una supremazia vera o presunta ma un differenza da colmare con l’aiuto di tutti.

Quando il Paese ha deciso, di fatto, che il Mezzogiorno non aveva più diritto alla perequazione ed alla attenzione di tutti ma che era una zavorra improduttiva, il Nord profondo ha iniziato una propria riflessione autonomista, coltivata per decenni, con la sottintesa idea che riducendo i contributi al mantenimento ed alla crescita del Mezzogiorno si sarebbe ridotta la pressione fiscale sul Nord. Il progetto ora appare sullo sfondo sfocato di questi tempi e le nuove dinamiche di relazione tra il Paese, l’Europa e i Paesi in via di sviluppo pare abbiano sostituito questa narrazione. Nei fatti, però, è rimasta una forte ed indiscutibile eredità culturale fatta di divisioni e pregiudizi che come una corrente carsica riemerge periodicamente.

Ne è stata testimone l’imprenditrice Rossella Paliotto, che ha raccontato su di un quotidiano locale delle critiche ricevute in un convegno in Lombardia, in sua presenza, dalla città di Napoli per la sua disorganizzazione, critiche mosse dal direttore del sito museale di Capodimonte e dovute alla carenza di trasporti pubblici ed al fatto che era emersa la disponibilità di una fondazione bancaria a dare un supporto per collegare il museo di Capodimonte al centro della città, offerta letta come una supplenza caritatevole (seppur necessaria vista la carenza del servizio). Da ciò la Paoliotto giunge all’amara conclusione che quelle critiche fossero più che giustificate dalla mancanza di organizzazione della città e dei sui servizi. L’appello alla città ed alle istituzioni che ne è scaturito ha avviato un dibattito tra chi ricorda le oggettive difficoltà del Mezzogiorno e chi invece ritene che la responsabilità sia in primo luogo di chi quei luoghi li vive.

La soluzione non sembra a portata di mano, poiché  non è semplice mettere le mani nel cesto dei problemi e decidere se sia da affrontare prima il tema delle condotte individuali e collettive di larga parte dei cittadini che quelle aree vivono o il disimpegno del Paese sui temi del Mezzogiorno. Resta però da dire che le due strade non sono incompatibili, a patto però di avviare il percorso in entrambe le direzioni.

Che il Mezzogiorno sia uscito dalla agende per anni è innegabile.

La spesa pubblica procapite per i servizi è nettamente inferiore al Sud rispetto al Nord del Paese. E questo divario incide sulla salute dei cittadini, sulla mobilità ed in generale sulla qualità delle vita. È innegabile che i fondi per gli asili, per la sanità e per la gestione degli enti locali sino nettamente inferiori. Ma al contempo la cultura assistenzialista, che ha alimentato la classe politica del Mezzogiorno, ha prodotto un effetto distorto nel chiedere più risorse.

La soluzione più concreta che la politica ha offerto, infatti, sono le centinaia di migliaia di residenti nel Meridione che hanno ricevuto il reddito di cittadinanza, il cui messaggio intrinseco ha avallato l’idea che lo Stato eroga denari a pioggia senza attenzione per collettività produttiva, intesa come società e comunità che cerca di offrire con il proprio lavoro il proprio contributo alla crescita del Mezzogiorno.

Uno strumento che, invece che responsabilizzare i singoli e le istituzioni locali, porta nelle tasche di tantissimi un “reddito” ma non offre una soluzione o una via di uscirà concreta e responsabile dalla crisi economica e sociale del Mezzogiorno. 

In sostanza, le risorse vanno nella direzione opposta a quella che servirebbe.

La scelta di puntare solo sul reddito di cittadinanza, invece che su di un rafforzamento dei servizi e su nuove risorse da gestire anche tramite gli enti locali, impedisce una presa di coscienza netta da parte delle istituzioni locali e della classe politica, che dovrebbe invece ambire ad affrancarsi dalle critiche (giustificate) sulle inefficienze, chiedendo di gestire al meglio le risorse offendo migliori servizi, legittimando invece con le proprie inefficienze , e spesso inettitudini, un  diffusa deresponsabilizzazione degli individui e delle istituzioni stesse.

Per uscire dalla spirale di critiche e luoghi comuni serve che si inverta la rotta sia degli investimenti pubblici sia dell’approccio che i cittadini, la società civile, i politici del Mezzogiorno devono avere per fa sì che prendano coscienza che solo partendo dalla consapevolezza delle proprie risorse e responsabilità si possa avviare un percorso di affrancamento  dalle logiche assistenziali. E serve che lo Stato abbia fiducia nelle istituzioni locali ed offra risorse e maggiori strumenti al Mezzogiorno, che non siano erogazioni a pioggia indiscriminate, ma occasioni per evolversi autonomamente e crescere, avendo la responsabilità di riconquistare autorevolezza e centralità grazie alle proprie energie ed alle proprie capacità.

Diversamente il divario è destinato ad aumentare e  le critiche a divenire sempre più fondate, perdendo per sempre quella visione del Paese diverso ma connesso che ancora, a fatica, resiste.