In uno dei più bei romanzi di Fruttero e Lucentini il protagonista si trova di fronte a una serie di indizi per sbrogliare la matassa dell’astuta trama messa su dagli autori. Nulla è come sembra e soprattutto molte delle soluzioni arrivano quando ci si rende conto che la realtà è più semplice delle illusioni della mente. In un passaggio fondamentale, un indizio è un appunto su di un foglietto in cui si leggerebbe “TOPOS” e, trattandosi di indagine inizialmente su fatti politici, per comprenderne il significato il protagonista si spinge in elucubrazioni sul termine e sulla sua genesi e su cosa volesse indicare chi lo aveva scritto.

Tanto buio, finché, illuminata dal un lampione, si accende in controluce la realtà. Non “TOPOS” ma “TO PO5”. I numeri di una targa letta in controluce nella pioggia.

Da quella presa di contatto con la realtà il racconto svolta verso la soluzione e lascia una riflessione. Se non capiamo i problemi è probabilmente colpa della mancanza nostra per non saper guardare alla realtà per quella che è, facendoci invece sommergere da ciò che crediamo di vedere e sapere. 

Su questo inizio di 2020 aleggia ancora forte la sensazione che le cose da fare per risolvere i problemi del Paese siano avvolte nel fumo delle decisioni archetipe, prima i princìpi poi i fatti, che pare che tutti invochino perché a discutere di principi si è sempre pronti, tutti, ma a stare ai fatti, che discendono dalla realtà, ci si ritrova in pochi. 

La realtà ci dice che il Mezzogiorno nel 2019 è in recessione e che il Paese, lungi dal trovare una sua compattezza economica e sociale, prosegue su strade che si divaricano sempre più. Da un lato il fuoco dei social che infiamma su temi di bandiera i fans al servizio dei capicorrente, dall’altro la fatica di costruire valore e ricchezza, fatica che quotidianamente affronta sempre più ostacoli. Così, mentre la notte avanza, può forse aiutare mettere ordine tra le lancette e iniziare a sbrogliare la matassa partendo dalle cose necessarie. 

La prima, tra tutte, non è legiferare ancora o prevedere immani ed epocali riforme, ma governare e decidere. 

Molto di quello che non è accaduto in questi anni in senso positivo lo si deve alle non decisioni ed  all’incapacità di far procedere i fatti. Un esempio su tutti è la mancata spesa di fondi e risorse disponibili (dal dissesto idrogeologico ai fondi di coesione) che sono rimasti fermi nelle procedure ordinarie e che hanno bloccato la possibilità di avviare nuovi cantieri e modernizzare il Paese.

Nonostante le recenti riforme (epocali nelle premesse) della pubblica amministrazione e nel codice degli appalti si è perso un quinquennio attendendo miglioramenti alle procedure. Nel frattempo le uniche strutture che hanno prodotto un qualche risultato sono quelle commissariali, ovvero quei luoghi in cui si decide e si fa. Un esempio in Campania è stata la struttura commissariale per le Universiadi (prima ancora Expo a Milano) che è riuscita a spendere le risorse, ammodernare le strutture sportive e dare alle comunità locali la reale percezione della presenza di un governo dai processi efficienti. Se gli stessi soldi fossero andati ai singoli enti, le gare sarebbero ancora impantanate tra ricorsi e controricorsi. E questo insegna che la Costituzione, quando chiede che le procedure di selezione siano imparziali, non pretende che vi siano mille passaggi e blocchi ma garanzie sui risultati. E a nulla vale invocare la crescita dei controlli come baluardo contro le corruzioni. Come nel caso Anas di recente in Sicilia, più controlli e maggiore corruzione spesso vanno a braccetto, mentre può essere più utile, con gli strumenti oggi disponibili, monitorare un ufficio di un commissario con maggiore attenzione piuttosto che controllare mille stazioni appaltanti.

E sempre di princìpi si discute in materia di prescrizione di reati. La risposta che si è voluta dare con la riforma, che di fatto abolisce la prescrizione, è quella di sbandierare la fine dell’impunità creando invece processi senza fine. Ogni giurista sul campo, ogni artigiano del diritto sa che il problema della giustizia è nell’incapacità del sistema di fornire riposte ai cittadini. Incapacità che deriva dalla scarsità di decisori e dalla penuria di addetti. Gli uffici sono sguarniti nella sostanza e visto il numero dei giudizi pendenti, diviso il numero dei magistrati effettivamente applicati agli uffici giudiziari, appare davvero improbo chiedere che tutto avvenga celermente. Non è un problema di riti da cambiare o snellire, è un problema di numeri. Serve una massiccia iniezione di competenze per offrire un servizio di vera giustizia, attingendo per il fabbisogno alle risorse professionali esistenti (accademiche e dell’avvocatura) in modo da rendere possibile ai magistrati che saranno individuati di ridurre i tempi rendendo spedite le decisioni. Più magistrati servono, più decisori, non riforme che altro non faranno che bloccare gli uffici. E ciò servirebbe anche ad abbandonare la visione sacrale della magistratura come simulacro di un sacerdozio laico e affidarsi pragmaticamente alle competenze che già esistono. 

In sostanza, se non si affrontano i problemi per quel che sono e ci si abbarbica ai finti princìpi affidandosi alle percezioni massificate, non si farà altro che rendere la notte ancora più lunga, inseguendo i fantasmi delle convinzioni  errate invece che risolvere i problemi per quel che sono.