Instagram, proprietà di Facebook dal 2012, ha compiuto dieci anni nel momento in cui si intensificano le critiche ai giganti di internet e dei social network, il cosiddetto capitalismo della sorveglianza. Il rapporto della Sottocommissione antitrust della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, dopo aver studiato più di un milione di documenti e dopo una serie di udienze, ha concluso che Facebook, Google, Amazon e Apple agiscono come un monopolio, con poco o nessun rispetto per la privacy. Particolarmente drammatici sono stati alcuni interventi, che hanno segnalato la debolezza dei mezzi di comunicazione tradizionali, ormai dipendenti dalla “fattoria industriale di Facebook”. Il rapporto è indebolito dalla mancata ratifica da parte dei Repubblicani, ma in alcuni casi riporta materiale interessante.
Per quanto ci si possa addentrare nelle complessità delle gestioni delle imprese della Silicon Valley, risulta molto utile il documentario di Jeff Orlowski The Social Dilemma. Questo lavoro ci consente di capire meglio come “monetizzano”, cioè come guadagnano tonnellate e tonnellate di danaro, e come influenzano la condotta personale e sociale.
Il caso di Cambridge Analytica nel 2018 ci ha aperto gli occhi, facendoci capire che gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale vengono utilizzati per sfruttare la psicologia di molti. In quello scandalo sono stati processati i dati di 50 milioni di utenti di Facebook per influenzare, forse la parola esatta sarebbe manipolare, gli elettori nelle elezioni presidenziali del 2016. “Invece di stare sulla pubblica piazza, dire ciò che pensi e lasciare che la gente venga e ti ascolti, sussurri nelle orecchie di tutti e di ciascuno degli elettori. E puoi sussurrare una cosa a uno e un’altra a un altro”, spiega Christopher Wylie, uno dei collaboratori di Cambridge Analytica, nel suo libro Mindf*ck.
Ora, però, siamo andati oltre. Non si tratta più di un consulente, di una fazione politica, che fa campagna per un candidato o per una causa utilizzando i dati dei social network. La cosa interessante di The Social Dilemma è che dettaglia come gli stessi social network possano generare, e di fatto in molti casi lo fanno, ciò che Tristan Harris, ex manager di Google, chiama una modifica esistenziale. Insieme a Harris, molte voci di persone che hanno ricoperto alte responsabilità nelle grandi società di internet e dei social network denunciano che la dipendenza e la violazione della privacy non sono errori o abusi, ma fanno parte del sistema. Si sa che quando qualcosa è gratis su internet è perché noi e il nostro tempo siamo il prodotto, ma nel documentario Jaron Lanier riferisce con efficacia che il prodotto, in realtà, è un cambiamento leggero e impercettibile del comportamento dell’utente, con l’obiettivo di renderlo più dipendente, più bisognoso delle approvazioni attraverso i “like”, più sotto controllo nel suo modo di guardare il mondo e se stesso. Jaron Lanier aveva già denunciato questo meccanismo nel suo libro Diez razones para borrar tus redes sociales de inmediato (Dieci ragioni per cancellarti immediatamente dai social network) .
Senza dirlo esplicitamente, i molti ex manager che appaiono in The Social Dilemma denunciano una colonizzazione del nostro tempo, della nostra noia. Finora, ciò che ci preoccupava era come queste grandi società raccoglievano i nostri dati e violavano la nostra intimità, ma forse l’espressione capitalismo della sorveglianza è diventata vecchia. In realtà, non c’è nessuno che ci sorveglia, nel senso tradizionale. L’estrazione dei dati è solo uno strumento per l’obiettivo finale, la battaglia si combatte nella psicologia comportamentale, alla quale queste società dedicano molte risorse. Occorre conoscerla bene per individuarla e questo si fa mediante potentissimi sistemi di Intelligenza Artificiale che imparano da soli, che generano creativamente, con tutti i dati di cui sì dispongono, contenuti che creano dipendenza e con i quali si amplia il tempo nel quale si rimane connessi. Richiamati da una notifica, prendiamo il cellulare, facciamo un commento nel gruppo di WhatsApp, andiamo su un video che YouTube ci suggerisce, e cosi da un richiamo all’altro. Venti minuti dopo non ci ricordiamo più la ragione iniziale per cui abbiamo toccato lo schermo.
Un capitolo a parte merita il fatto che i social network diventino l’unica fonte di (dis)informazione. Gli intervistati nel documentario sostengono che non vi è un piano preventivo per indirizzare le notizie in una precisa direzione. Si tratta solamente, anche qui, di colonizzare il tempo e il desiderio. Questo si ottiene meglio creando emozioni negative in gruppi chiusi che alimentano pregiudizi. L’universalità delle relazioni viene così distrutta.
È significativo come finisce The Social Dilemma, cioè con raccomandazioni di comportamento. Gli intervistati sembrano non aver compreso la natura della noia che i loro colleghi colonizzano. È in questa noia tutta la forza di resistenza al capitalismo della sorveglianza. Quello che nessun algoritmo può evitare è che dopo mezz’ora, un giorno, un anno di uso dipendente, compaia la noia. I nostri cervelli hanno dentro una forma di sentire alla quale risultano insufficienti anche gli stimoli migliori. È questa insufficienza che genera libertà. La ragione, per quanto danneggiata possa essere, sempre è ragione e funziona.