Le ultime stime macro prevedono che alla fine del 2020 il Covid avrà amputato il Pil mondiale del 5,2%. Ma la media aggregata globale, naturalmente, è composta di vincenti e perdenti. Fra i primi c’è – in fondo unica e vera winner – la Cina, che secondo la World Bank dovrebbe registrare una crescita dell’1,6%:  quindici mesi dopo la  comparsa del virus a Wuhan. Pechino è più ottimista ancora, con una stima di +2,3%.  Secondo la Banca mondiale invece, a fine 2020 Usa (-6,1%) e Ue (-9,1%) si ritroveranno nettamente al tappeto: e le previsioni non includono eventuali extra-impatti della seconda ondata pandemica. 



Nel plotone delle “potenze”, l’Italia appare ulteriormente attardata. Il Nadef mantiene ancora un -9% alla fine dell’annus horribilis, ma tutti gli altri think tank istituzionali sono più pessimisti: Confindustria ha appena collocato a -10% il conto-Covid, mentre il Fmi taglia ancora di più (-10,6%) e rimane ancorato alla forte preoccupazione post-lockdown. 



Il bollettino sanitario sta tornando a oscurare quello economico-finanziario, mentre quello geopolitico si sta concentrando sulla scadenza elettorale negli Usa. Ma non c’è dubbio che – in Italia e in Europa. come negli Usa – l’emergenza vera è oggi la ripresa: che non è affatto alternativa all’impegno sanitario, oggi più accelerato sul fronte della ricerca medica. Ma  l’autunno è certamente diverso dalla terribile primavera in cui, per mesi, in tutt’Europa, la priorità stretta è stata il contrasto all’urto della pandemia: reso più devastante dall’opacità informativa tenuta dalla Cina, presumibilmente anche in funzione di contenimento del contraccolpo recessivo. 



Nell’autunno 2020, il virus non è sconfitto e molte battaglie devono essere ancora combattute. L’ultimo Dpcm varato dal Governo – in parallelo con le misure adottate da altri grandi Paesi europei – non fa nulla per nasconderlo. Però le parole del premier Giuseppe Conte – “Escluderei nuovi lockdown” – sono inequivocabili e condivisibili: una nuova chiusura generalizzata “non è un’opzione”. Nel gergo anglosassone non è mai an option quella che implica failure: un rischio di  fallimento irreparabile.  

A differenza delle settimane drammatiche dell’inizio dell’anno, l’Italia dispone di numerose opzioni che prima non c’erano. La prima e principale è certamente l’apprendimento individuale e sociale, il “micro-capitale” umano che ogni italiano, ogni impresa, ogni ente di governo centrale o locale  hanno potuto accumulare da febbraio in poi. Per questo, fra l’altro, è fondamentale che il sistema scolastico resti aperto: la rete vera di “terapia intensiva” è oggi quella socio-educativa delle aule aperte, anche per tenere alta la decisiva guardia comportamentale nei più giovani e per tenere efficiente la funzione di welfare per i milioni di genitori che lavorano, che devono poter lavorare.

Dal sistema delle imprese giungono nel frattempo segnali diseguali. È naturale – e opportuno – che sui media filtrino soprattutto gli Sos di settori come il turismo e – in generale – gli allarmi delle aziende più piccole e dei lavoratori individuali. Ma contano anche i silenzi di chi non avrebbe comunque buone notizie da comunicare, ma è comunque impegnato a lavorare: a rilanciare produzione export. investimenti, anche l’occupazione.

Le imprese del Made in Italy, dalla meccatronica, al fashion, all’arredo – sono aperte. I fatturati saranno falcidiati, ma il semestre più duro (marzo-agosto) sembra alle spalle. I portafogli ordini non sono stati uccisi dall’epidemia, anche se le supply-chain dell’industria globale sono un mare in tempesta. Ma è una ragione per impegnare l’Azienda-Paese all’insegna del  “business as usual”, anche se non c’è nulla di usuale. Ma il “new normal” – quando e come si potrà realizzare – impone anzitutto di resistere a ciò che è “assolutamente anormale” per un Paese manifatturiero come l’Italia: chiudere le sue imprese, le sue scuole, la sua Pa. Non c’è alternativa: Neppure a inseguire la ripresa cinese.