Durante l’emergenza Covid sembrava essere emerso in modo chiaro quale sia lo scopo della medicina e delle organizzazioni sanitarie.  Lo scopo è la “cura”, il prendersi cura, della persona ammalata (e della sua famiglia). Con una doverosa annotazione: se in qualche definizione di tale scopo si inserisce anche la parola “salute”, ciò è condivisibile, se con questo si implica l’allargare l’intervento clinico-assistenziale anche a tutto ciò che è prevenzione. Ma se, come nelle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, la “salute” divenisse un “diritto”, ciò cozzerebbe evidentemente con la realtà di fatto che nessuno è in grado di tenere sé stesso o altri in uno stato permanente di completo benessere psicofisico.

Detto ciò, a fronte di una condivisa chiarezza dello scopo, ne è seguito, in quel periodo, un metodo di intervento, la cui sfida ora è però quella di “tenere nel tempo”, ovvero non rimanere un evento sporadico, ma poter essere ricercato e riproposto anche in un periodo di normalità o, addirittura, nel corso di una eventuale seconda emergenza. Il metodo è stato quello di una “alleanza virtuosa” tra i clinici e gli organizzatori sanitari.

Infatti, la complessità del sistema sanitario implica che vi sono diverse figure professionali coinvolte. Gli erogatori diretti della cura nella relazione con i pazienti sono i professionisti clinici della sanità: medici e tutti gli altri professionisti clinico-assistenziali. Poi vi sono i professionisti dell’organizzazione sanitaria, nei diversi livelli di direzione e amministrazione. Nel caso dei soggetti privati, vi è anche il livello delle proprietà.

Nelle situazioni di normalità, il clinico che ha il privilegio di essere vicino ai malati deve giustamente essere messo in condizione di lavorare bene e contento. Può, però, correre il rischio di vivere come assolutamente preminente la propria figura, e come un “orpello” le preoccupazioni organizzative, relative a valutazione e confronto, e la rilevazione di indicatori e standard.  Il medico vive il legittimo desiderio di poter lavorare in condizioni soddisfacenti, e il giusto anelito al riconoscimento che la risorsa maggiore, da valorizzare in un sistema sanitario, è la risorsa umana e professionale.

D’altra parte, il clinico non può, oggigiorno, non tenere conto del contesto organizzativo, fino alla comparazione con standard di riferimento e/o altre strutture professionali. In altri termini, il privilegio di essere a contatto coi malati non può essere fuori dalle regole del gioco e divenire “privilegio” di non essere valutato e paragonato. Indicatori e standard sono necessari. Certo, è necessario che siano mirati a misurare il necessario, non iperespressi da diverse e molteplici agenzie (sovranazionali, nazionali, regionali, locali) e confrontati e condivisi, anche in fase di elaborazione, con i clinici.

Dall’altra parte, è opportuno che gli organizzatori sanitari tengano presente la loro mission preziosa e profonda, ripensare a organizzare “per chi”, oltre che “perché”, cosicché il loro lavoro di progettazione, valutazione, aggiustamento abbia mission e vision “alte”,  a misura di professionista e di uomo, e siano disposti anch’essi a confrontarsi. Le Direzioni che non indulgono ad ipertecnicismi pronti a degenerare in burocrazia e in un mondo “parallelo” a quello della cura cercano la collaborazione dei sanitari e ascoltano i  ritorni da parte dei cittadini e delle persone malate.

Se il metodo preferibile è sempre quello di trovare “esperienze”, sarebbe utile individuare tante di queste “alleanze virtuose” tra clinici e organizzatori sanitari, da paragonare con la propria esperienza quotidiana.

Come semplice esempio, e con tutti i limiti connaturati a ogni ironico tentativo umano, vivo un’area ove la Direzione ha messo i medici di cure palliative in condizioni di sviluppare sia le cure palliative precoci nei reparti ospedalieri per acuti che le cure palliative di fine vita in hospice e a domicilio. I medici di cure palliative si interfacciano in modo continuativo con i medici di famiglia e la continuità di cura è messa in atto. La persona ammalata è presa in carico attraverso tutti gli assetti e vi è una “copertura” tale che si riducono alcuni importanti indicatori negativi: gli accessi al pronto soccorso , i ricoveri in ospedale per acuti, le morti in reparti per acuti.

Esistono ospedali, territori, distretti, in cui l’organizzatore sanitario e il clinico dell’ospedale e quello del territorio si parlano e si ascoltano con pre-stima, si riconoscono vicendevolmente dignitosi e professionisti seri, in cui ognuno fa il suo e rispetta il campo dell’altro, in una desiderata ed esperita integrazione reale?

Sarebbe bello raccontarseli per conoscerne i contenuti e riportarne anche i risultati maggiori, perché certamente dove c’è questa alleanza ci sarà più qualità di cura dell’organizzazione sanitaria, qualità di vita del paziente e qualità percepita. L’integrazione deve essere messa a sistema, non lasciata alla buona volontà, in una necessaria compresenza tra “carità” personale e attenzione della struttura. Il tempo di comunicazione è un tempo di cura, ma non solo comunicazione tra professionisti e persone ammalate. E’ il modo di lavorare non solo più bello, ma anche più efficace ed efficiente, quello che valorizza il rapporto tra chi lavora insieme per lo scopo comune.