Come sta cambiando la partecipazione degli italiani alla vita pubblica del Paese? La pandemia ha inciso in qualche modo? Quale ruolo giocano e possono giocare i corpi intermedi nella società italiana e nella democrazia? Queste le principali domande a cui vuole rispondere una indagine Ipsos – presentata ieri – che fa parte di un più ampio studio sul tema curato da Fondazione Astrid, Fondazione per la Sussidiarietà e Cnel.

Veniamo da almeno un paio di decenni di allentamento dei legami sociali, immersi nella nota “società liquida” di Zygmunt Bauman. Associazioni, sindacati, partiti, luoghi di aggregazione di persone impegnate a costruire risposte ai bisogni di singoli gruppi o della collettività hanno col tempo perso il loro ruolo, ma anche la loro credibilità. In un primo momento è toccato ai partiti. L’attacco è cominciato con Tangentopoli e poi è proseguito secondo il copione “anti-casta”. Sono stati travolti dal discredito senza se e senza ma. È seguita una campagna denigratoria verso i corpi intermedi, verso tutte le forme di aggregazione strutturate per rappresentare i più disparati bisogni dei cittadini. Pensiamo non solo ai partiti, ma anche ai sindacati, alle fondazioni bancarie, alle cooperative.

Il risultato è stato desolante, come ebbe a commentare al riguardo Pierluigi Battista: “Che abbaglio colossale abbiamo preso, noi che abbiamo inneggiato incantati alla modernità che ci avrebbe fatti più simili agli altri, ai Paesi più avanzati. L’abbiamo chiamata liberazione, ed era solitudine di massa. Emancipazione dalle appartenenze, dalle ideologie, dalle corporazioni, oppure, con termine gergale più sofisticato, ‘disintermediazione’, annullamento dei mille corpi intermedi che fanno da cuscinetto tra lo Stato e l’individuo. Ma ora, a emancipazione avvenuta, nessuno appartiene più a niente. È solo, senza vincoli, senza luoghi in cui ritrovarsi, senza una comunità in cui vivere insieme agli altri. Solo con una tastiera, escluso da tutti, forgotten man“.

L’indagine dell’istituto di Nando Pagnoncelli mostra una prima interessante evidenza: complice anche la pandemia, gli italiani hanno ricominciato a sentire il bisogno di vivere in una società organizzata e a non aspettarsi risposte solo dallo Stato o dal mercato. Ritengono che l’attuale sistema democratico italiano non funzioni e sono diffidenti verso quei corpi intermedi che associano a interessi non chiari. Nello stesso tempo, però, pensano che le realtà del Terzo settore siano ormai indispensabili al buon funzionamento dello Stato sociale e dei servizi a esso correlati.

Il 41 per cento degli intervistati ritiene che il compito principale dei corpi intermedi sia contribuire alla crescita e al benessere sociale dell’intero Paese; il 34 per cento ritiene che sia supplire alle carenze delle politiche pubbliche e dei servizi pubblici. Quasi il 70 per cento ritiene che sarà importante il ruolo delle associazioni e dei “corpi intermedi” nella ripartenza dell’Italia. La parola sussidiarietà è ancora sconosciuta ai più, ma il suo valore non lo è. Infatti, più di un terzo degli italiani si dichiara «socialmente attivo»: iscritto ad almeno un corpo intermedio tra associazioni, sindacati (le voci più frequenti), ordini professionali, movimenti, partiti o associazioni imprenditoriali. A motivare la partecipazione è sia il perseguimento di interessi particolari, impossibili da raggiungere da soli (prevalente negli iscritti a sindacati, associazioni imprenditoriali e ordini professionali), sia il desiderio di essere utili, di condividere la vita con altri, di partecipare collettivamente alla vita sociale del Paese. Desideri prioritari tra gli iscritti ad associazioni, movimenti e partiti. Emerge anche un forte interesse per la politica che però si riduce prevalentemente a un attivismo sui social.

Tanti anni di trascuratezza degli ideali di solidarietà e responsabilità sociale hanno lasciato il segno.

Mentre la popolazione si fida di associazioni di volontariato, di associazioni a tutela dei consumatori e di fondazioni culturali non stima enti intermedi più strutturati che implichino l’utilizzo di risorse economiche, quali imprese sociali o cooperative, che tutelano gruppi economici come i sindacati o associazioni di categoria, o che abbiano nessi con la politica come i partiti. È penetrata cioè nella mentalità comune l’idea che se qualche realtà è portatrice di interesse non è affidabile. Tanto è vero che se la metà degli intervistati riconosce la possibilità che servizi di rilevanza pubblica siano gestiti dal privato, una netta maggioranza preferisce che tali servizi vengano erogati dallo Stato o dalle autorità locali.

In altre parole, si avvertono, statalismo, centralismo, sospetto su chi genera reddito anche non profit, difende bisogni collettivi, vuole partecipare democraticamente e influire sulla formazione delle leggi. La disintermediazione ha fallito e ha lasciato solo macerie. La ricerca di Pagnoncelli mostra che anche in questo caso senza un lungo e paziente ritorno alla consapevolezza, all’educazione e alla conoscenza non ritroveremo i sentieri della costruzione sociale. E senza questa riscoperta non c’è futuro, perché come ricorda Jeremy Rifking, “nessuna società è mai riuscita a creare prima un mercato o uno Stato e poi una comunità. È invece da una comunità forte e solidale che possono svilupparsi e funzionare Stato e mercato”.