Mentre il Covid-19 ha ripreso la sua corsa inquietante, il rapporto Caritas 2020 segnala che in Italia la povertà aumenta e aggredisce nuovi strati di popolazione. L’anno scorso il 31% di quanti hanno chiesto aiuto alla Caritas lo ha fatto per la prima volta: prima non ne aveva avuto bisogno; quest’anno la percentuale è schizzata al 45%. Il numero degli italiani ha superato quello degli stranieri: erano il 48%, sono saliti al 52%. Aumentano le donne bisognose: dal 51% al 55%, i giovani (dal 20 al 23%) e le famiglie con figli.
Al di là dei dati della Caritas, sappiamo che la pandemia ha aggravato una fase critica che dura da tredici anni: dal 2007 a oggi il numero dei poveri cosiddetti assoluti, cioè alla fame, è raddoppiato. Quest’anno gli occupati sono scesi di 840mila unità. Il blocco dei licenziamenti va in scadenza, e quand’anche fosse parzialmente prolungato, è lecito attendersi un’ondata di ulteriore disoccupazione e una difficoltà a reperire i quattrini per gli ammortizzatori sociali e per i sussidi assistenziali. I fondi europei per la ripresa, quando arriveranno e se saranno spesi bene, produrranno benefici sensibili tra qualche anno.
Il Papa denuncia la crescita della diseguaglianza, pandemia sociale, l’ha chiamata, che proviene dal virus di un’economia malata, quella dello scarto.
La maggioranza dei cittadini, come ha messo in luce una recente ricerca di Ipsos-Fondazione per la sussidiarietà, hanno scarsa o nessuna fiducia nei corpi intermedi, cioè nelle tradizionali forme associative di rappresentanza, a cominciare da Confindustria e sindacati, e la mantengono per il volontariato. Che non potrà certo fare miracoli, a buon conto.
Un bel rebus. Che lasciamo alle task force, peraltro aumentate più della povertà. Ma anche una bella sfida che ci si ripropone, un urto potente della realtà che non si esorcizza con le pur necessarissime mascherine e distanziamenti vari. Ci deve o dovrebbe aiutare l’esperienza fatta nei mesi scorsi: la domanda è quella posta da Alberto Savorana a don Julián Carrón nell’intervista pubblicata in giugno dalla Bur/Rizzoli con il titolo Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso. La domanda è: “Di tutto quello che stiamo vivendo, che cosa resterà quando l’emergenza sarà passata?” (l’emergenza non è passata ma, ammettiamolo, ragionavamo come se lo fosse). E la risposta di Carrón: “Qualcuno ha scritto che dalla grande pandemia usciremo cambiati. Aggiungo … solo se cominciamo a cambiare adesso … Il cambiamento non avviene per semplice accumulazione di urti, di eventi o impressioni delle cose che capitano, ma per una comprensione del senso di ciò che ci accade, cioè come acquisto di conoscenza”. Questo è il primo libro che suggerirei di rileggere.
L’itinerario in esso delineato parte dall’irruzione della realtà che scuote da quel torpore che ci lascia inermi di fronte alla vita e ridesta la ragione come esigenza di significato, mentre all’uomo si disvela la sua strutturale fragilità e va in crisi l’illusione dell’autosufficienza, fino all’entrare in gioco non di una risposta teorica ma di una presenza, Dio attraverso una compagnia umana, che afferma la dignità della persona in una indistruttibile positività. Il tutto rendendosi credibile nella testimonianza.
Per questo, il secondo libro che suggerisco è quello di Ignacio Carbajosa, Testimone privilegiato, da poco uscito per i tipi di Itaca. È il diario di venti giornate che il sacerdote spagnolo ha trascorso come cappellano volontario in un ospedale Covid. Parla di assistenza ai malati, ma le stesse cose che racconta e sottolinea l’autore valgono pari pari per chi dà tempo ed energia per aiutare i poveri. Cominciando dal fatto che, va bene le percentuali e i numeri, ma si tratta di singole persone, ciascuna unica e irripetibile. L’autore annota tutti i nomi. Non ci sono “i malati di Covid”, ma: Patricia (“sedata, un corpo inerme. E una dignità enorme. Cos’è l’uomo perché tu te ne curi?”. Poi Rocìo (“donna di fede che ha appena perso il marito. Sono impressionato dalla tensione che questo virus ha introdotto nelle nostre coscienze”). Eusebio (che dorme con la bocca sdentata aperta. Bigliettini sul comodino. “Saranno dei nipotini… quanto abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi e ci dica chi siamo. Soprattutto quando sembra che non valiamo niente”). Antonio ha l’Alzheimer in forma grave (“Dov’è l’io? Come siamo ingenui quando affermiamo il nostro io come l’ombelico del mondo”). Jorge, il giorno di Pasqua (“Mi saluta dicendomi Resurrexit sicut dixit”). Juan Carlos (Un duro, basco. Sull’incazzoso. Rifiuta di dire o farsi sussurrare all’orecchio un Pater e un’Ave. “Coloro che si concepiscono autonomi sopportano male la malattia”, annota l’autore. Il quale riferisce più avanti che a un certo punto dice all’infermiera: “Voi non sapete cosa significhi la vostra presenza per un malato abbandonato”). E così con tanti, tanti altri. “Dipendenti. Vulnerabili. Bisognosi. Amati”. Accompagnati ad affidarsi a Gesù e Maria, verso la guarigione, o verso la morte. “Quando sono davanti a un moribondo, non ci sono formalità possibili. Due umanità faccia a faccia, due limiti gravidi di infinito”.
In fondo, a pensarci bene, conviene ripartire da qui.