Un amico di un’impresa sociale che si occupa di formazione e servizi per il lavoro mi scrive: «Mi è capitato spesso nelle ultime settimane di incontrare ragazzi in stato di “dispersione”, sia scolastica che lavorativa, ormai da tempo fuori dall’orbita della scuola e privi di requisiti per essere inseriti nel mondo del lavoro. In questi casi, in genere si sceglie tra due opzioni: spingerli a tornare a scuola e scaricare il “problema” su chi dovrà gestirli in classe, oppure tentare un inserimento in azienda tramite finanziamenti per la disoccupazione giovanile. Se poi la collocazione non funziona, qualcosa ho comunque “portato a casa”. Non so quale delle due soluzioni sia più sbagliata. Nessuna delle due affronta davvero il problema, entrambe lo spostano. Confrontandomi con una collega che vive il mio stesso senso di impotenza, abbiamo deciso di darci da fare per cercare di realizzare percorsi per ragazzi come questi, che prevedano un primo periodo di alternanza scuola-lavoro, utili a dare una struttura professionale e personale, e che sia finalizzato poi a un contratto di apprendistato che consenta loro di lavorare e studiare insieme. Abbiamo trovato il modo per farci finanziare il progetto e a breve partirà la prima classe. Lavorare e vivere accettando di uscire dalla “comfort zone”, porta creatività, idee, voglia, e rende tutto molto più interessante. È un inizio, vediamo che cosa succede».

Il racconto del mio amico sembra aver a che fare solo con i temi della riqualificazione e della formazione continua, ma si colloca in un contesto sempre più inquietante. Il mondo del lavoro, da tempo in uno stato di shock dovuto al rapido sviluppo tecnologico e all’apertura dei mercati globali, ha reintrodotto sistemi di sfruttamento: grandi società di lavoro interinale offrono stage a 350 euro mensili a laureati per 42 ore settimanali; avvocati che hanno già superato l’esame vengono retribuiti con 250 euro mensili; gli orari di lavoro per molti si prolungano molto spesso fino alle 23 senza straordinari…

In un generale momento di ripensamento sul ruolo e sulla responsabilità di imprese, lavoratori e sindacati, non è superfluo ricordare che il lavoro rimane il centro di qualunque sviluppo economico e sociale. Da una parte, va creato e valorizzato; dall’altra, va affrontato mettendo al centro conoscenze e competenze, così come le capacità trasversali quali lo spirito di iniziativa, la fiducia, l’apertura mentale.

Quel che serve forse, da una parte e dell’altra, è ricordare che non esistono le risorse umane da sfruttare, ma che è l’uomo la risorsa.