Dal deserto di marzo alla palude di ottobre. Mi sembra di poter descrivere così gli ultimi mesi vissuti, segnati indelebilmente dalla pandemia. Dopo un primo shock iniziale, ci si era lasciati prendere dall'”ottimismo della volontà”, dall'”andrà tutto bene”. Ma è durato poco, già a marzo era chiaro che non sarebbe servito stare un po’ “in apnea”, che non sarebbe bastato uno scatto di volontà e di intelligenza perché tutto potesse tornare “normale”, praticabile. Le sirene delle ambulanze, e soprattutto il dolore dei tanti che perdevano parenti, amici, conoscenti, occupazione, certezze e speranza non potevano non occupare ogni giorno mente e cuore.
Presto si è poi affacciata l’angoscia per la situazione sociale ed economica. Sapere che durante il lockdown il 30 per cento di bambini e ragazzi non si è mai collegato alle lezioni, che gli interventi assistenziali del Governo potevano solo in parte tamponare situazioni di povertà e disagio crescenti, che settori interi del tessuto produttivo venivano messi in ginocchio, che tanto disagio psicologico esplodeva, ha dato la sensazione di inoltrarsi in un deserto, in un luogo dove non c’è la vita.
Quel senso di disagio, di vuoto, di mancanza è divenuto per tanti la possibilità di guardare dall’alto l’esistenza, di percepire senza frastuono il rumore del cuore, di cercare con più determinazione cosa poteva veramente dare conforto all’inquietudine personale, vecchia e nuova.
Poi è venuta la fine del lockdown e l’estate. La vita sociale ricominciava in modo pressante e, come convalescenti, ci si è affrettati a tornare a una sorta di normalità, convinti che, in fin dei conti, il peggio fosse passato, che bisognava solo tornare a costruire, buttarsi dentro le cose, immaginare il domani.
L’allarme però è tornato con l’arrivo dell’autunno. I contagi hanno cominciato a risalire di giorno in giorno e a oggi non si sa dove si andrà a finire.
Quello che in primavera era un deserto, ora è diventata una palude. Nella palude la vita c’è, ma è insidiosa, si rischia di finire da un momento all’altro nelle sabbie mobili, in un gorgo improvviso o rimanere imprigionati nelle canne e negli arbusti che escono dall’acqua. Tutto è più confuso e incerto rispetto allo stesso deserto.
Per ora il sistema sanitario tiene, ma le scuole devono già ripiegare sulle lezioni online. Si erano appena ripresi convegni, incontri, frequentazioni de visu, ma già sono vietati o sconsigliati o resi impossibili per il coprifuoco serale. E anche nel mondo del lavoro si sente tutta la pesantezza che una prolungata lontananza fisica comporta.
Ci si illude che norme pubbliche più chiare possano diminuire il senso di incertezza, di confusione, di mancanza di terra sotto i piedi. E in tanti ci si agita per capire se un incontro programmato sia da considerare un convegno pubblico vietato, un incontro sconsigliato, o un’attività essenziale permessa. Come è forse normale nei momenti di confusione, si rischia di agitarsi disordinatamente, di vagare senza meta, di cercare ancora il proprio ruolo in un attivismo superficiale. In una parola, di scappare dal punto in cui siamo chiamati ad essere.
Don Giussani raccontava spesso che nel Medioevo le persone si muovevano in continuazione per sfuggire agli invasori e alla loro distruzione. E aggiungeva che adesso per molti aspetti la situazione è simile: tanta gente fa fatica a stare là dove è chiamata perché non ha la forza di resistere di fronte alle contraddizioni.
Adesso siamo tutti come quei monaci medioevali, chiamati a stare. Stare, vivendo e basta. Semplicemente a vivere dove siamo chiamati. Per attraversare la palude e affrontare non una ma tre emergenze, quella sanitaria, quella economica e quella psicologica abbiamo bisogno di recuperare il nostro “stare” che ricostruisce. Così come devono fare dottori e infermieri, di nuovo sotto l’emergenza, insegnanti che, in presenza od online, abbiano voglia di educare, imprenditori e lavoratori disposti ad affrontare nuove difficoltà, famiglie che non saltino tra smart working e convivenza forzata in spazi ristretti, politici che cerchino la collaborazione e non il protagonismo o il loro vantaggio. E tutti noi siamo chiamati a stare di fronte a condizioni non chiare e frustranti senza demoralizzarci, appiattirci, stancarci, incattivirci.
Paradossalmente, adesso che ritorna difficile vedersi, possiamo scoprire che non si può “tenere” da soli: ma solo rinsaldando i legami, guardando quei volti che danno respiro, stando con più verità insieme a quelle persone che infondono speranza, fiducia, energia.