Scuola, il fronte della battaglia al virus (e al nulla)

La guerra contro il virus combatte la sua battaglia contro il morbo e il nichilismo: i nuovi poveri sono coloro che perdono la fede

Il virus c’è. Questa considerazione elementare costringe tutti a fare i conti con una realtà che si può minimizzare, esagerare, tentare di giustificare o addirittura negare, ma che è inesorabile, è un dato. Le società organizzate di tutto il mondo hanno deciso di combattere questo virus: il perché di questa decisione non può certamente essere qui oggetto di un’approfondita analisi, ma essa stessa è un altro fatto che si impone alla libertà di tutti e che non può essere ignorato. È giusto pertanto chiedersi quali siano i fronti di questa battaglia, dove questa battaglia concretamente avvenga. Il primo luogo a cui pensare sono sicuramente gli ospedali, i reparti e le terapie intensive, ma non solo: la battaglia si combatte anche nel mondo dell’informazione e, più in generale, nell’immanenza della vita quotidiana.



Monsignor Camisasca qualche giorno fa in una lettera al clero della sua diocesi ha invitato tutti a continuare a vivere: ecco, esiste uno spazio di vita in cui ognuno può combattere questo virus, lo spazio che gli è stato dato e in cui è chiamato – come diceva Giorgio Vittadini proprio in un editoriale del Sussidiario – a stare, a vivere, a esserci. Continuare a vivere significa non perdere di vista nel pezzettino in cui siamo, per nessun motivo e nessuna limitazione, le questioni decisive dell’esistenza, non permettere che la paura travolga la domanda o rimpicciolisca il desiderio. Il luogo dove tutto questo dovrebbe accadere è la scuola, un ambito di umanità in cui gli adulti aiutano i ragazzi a non farsi portar via dal marasma dell’adolescenza e dal frastuono del tempo, indicando loro la necessità di diventare intimi amici degli interrogativi ultimi che li sfidano proprio dal di dentro della realtà.



Oggi la scuola è invece ridotta a problema, a “questione”: negli ultimi decenni l’avanzata del sistema capitalista l’ha trasformata in un prodotto di consumo, con tanto di clienti – utenti – e mercato, attaccandola alle sue fondamenta di luogo in cui si coltivano le due dimensioni fondamentali dell’esistenza, ossia l’appartenenza e la fiducia. A scuola si impara a fidarsi degli uomini e delle donne che sono venuti prima di noi: il sapere è tutto costruito sulla fede, su quella fiducia radicale che permette ad ogni epoca di non ripartire da zero. Eppure la scuola è anche palestra di appartenenza in quanto – come ebbe a dire Benedetto XVI nella Spe Salvi – soltanto in una relazione, in un rapporto, ogni generazione può riappropriarsi, può riguadagnarsi, il sapere trasmesso dai propri padri. Il nichilismo, per affermarsi e vincere, ha bisogno di abbattere ogni appartenenza e ogni fiducia.



La sua guerra è subdola in quanto non attacca l’appartenenza e la fiducia in modo frontale, ma insinua il sospetto che si possa benissimo vivere senza appartenenze e non fidandosi di nessuno. La battaglia al virus ha già mostrato quanto il tessuto sociale sia debole proprio perché sono venuti meno tutti i corpi intermedi che garantivano il perpetrarsi di queste due dimensioni: i partiti, la Chiesa, un certo sindacalismo, i grandi giornali, la famiglia. In questo deserto culturale post ideologico l’unica realtà comunitaria di massa rimasta a combattere il nulla in occidente è la scuola. Nella battaglia al virus quello che si sta dicendo, in fondo, è che della scuola – ossia di un tempo in cui si coltiva la fiducia e l’appartenenza – si possa fare a meno, che si possa seguire da casa proprio come si segue una serie su Netflix.

La scuola, dunque, è oggi il fronte della battaglia, al virus e al nichilismo. Lì rischiano di sorgere i nuovi poveri, uomini senza fede e senza legami, minati nella loro infinita dignità. Che cosa resterà quindi della scuola dopo la tempesta? Che cosa resterà di questa vittima designata della seconda ondata? Come cambierà il volto dei nostri ragazzi dopo questa battaglia che gli adulti del nostro tempo hanno deciso di giocare sulla loro pelle, decisi a privarli del bene più prezioso? È normale che si abbia paura ad andare al fronte, è normale che si abbia paura della battaglia e diversi docenti e genitori incarnano questa paura e quest’ansia di fondo. Ma occorre che qualcuno rimanga, occorre che nella notte qualcuno tenga accesa la luce della scuola.

Alla fine di tutto questo noi adulti saremo chiamati a rispondere non dell’economia, non delle responsabilità politiche dell’emergenza sanitaria, ma di come siamo stati dinnanzi allo sguardo smarrito e bisognoso degli adulti di domani, dei nostri ragazzi. È su questo nostro oggi che loro un domani ci giudicheranno. Ed è forse su questo che si gioca sul serio l’esito della battaglia, la nostra capacità di non trasformare la peste di oggi in rabbia di domani, di non trasformare la resistenza al virus in guerra e povertà che, prive dell’argine e dell’alveo della comunità scolastica, rimarrebbero così da sole a tiranneggiare il palcoscenico del XXI secolo, tradendo di fatto tutti i sacrifici dei nostri padri. E lasciando tutti senza un domani, in ostaggio del nulla e della disperazione.

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