Hanno avuto ragione Tito Boeri e Roberto Perotti a richiamare subito il Governo a “non ripetere errori nell’aiutare le imprese”. Sarebbe stato raccomandabile non commettere errori neppure in primavera: quando alle imprese venne lasciato un respiro minimo se non nullo sul piano delle scadenze fiscali; e venne offerto un meccanismo di garanzia creditizia impraticabile sul piano burocratico per aziende piccole e medie (e si mostrò infatti utile alla finanziare principalmente gruppi molto grandi).  E poi già durante il primo lockdown l’esecutivo è sembrato più preoccupato di porre le basi politiche di una ristatalizzazione dell’economia: peraltro incagliata su maxi-dossier come Autostrade o Rete Tim.

Le imprese e soprattutto gli imprenditori che vanno aiutati – questa volta per davvero – nel micidiale double dip della pandemia sono altri. Sono anzitutto le 400mila micro-imprese direttamente colpite dalle nuove restrizioni: bar, ristoranti, palestre, cinema, teatri. Ma anche gli artigiani già messi in ginocchio dalla prima ondata Covid. A tutti questi non serve un decreto Liquidità-2 o Rilancio-3. Anzi: non hanno proprio bisogno di decine di pagine di Gazzetta Ufficiale che – una volta decrittati – prescrivano 21 documenti da allegare a un clic a rischio su qualche portale della Pa. Meno che mai se l’accesso al sussidio dovesse rivelarsi la partecipazione a una lotteria, con monte-risorse definito e limitato.

Le prime indicazioni dai palazzi governativi sembrano incoraggianti: coloro che hanno fatto richiesta di sussidio in primavera non dovranno rimettersi in coda. Ma gli altri? Se la lifeline finanziaria non dovesse giungere prima di fine anno, già gli effetti economici e soprattutto sociali sarebbero incerti. Se poi a Capodanno i destinatari si trovassero nella stessa situazione dei dipendenti ancora in attesa di cassa integrazione da maggio, l’impatto sarebbe controproducente.

La crisi del 2008 ha provocato un’enorme distruzione di fiducia nei rapporti fra economia reale e sistema finanziario. È una perdita lontana dall’essere rimarginata, molto più ingente di quelle misurabili nelle sofferenze bancarie o nei crolli dei titoli sui mercati. Non si contano le aziende che – in Italia soprattutto dopo il 2011 – avrebbero potuto essere salvate da un sistema creditizio non paralizzato dai rating o – peggio – dal vincolo permanente di massimizzare i profitti per i loro azionisti. Oggi l’interfaccia finanziaria d’emergenza per le Pmi nazionali è lo Stato: al quale l’Ue ha temporaneamente sospeso ogni parametro-vincolo.

Aiutare le imprese a restare a galla per riprendere a navigare al più presto dipende unicamente dalla determinazione politica (nel tenere il punto in Europa sul Recovery fund ed eventualmente anche nel ricorrere al Mes) e dall’efficienza della burocrazia.