Accade frequentemente, dialogando con ottimi professionisti della sanità pubblica, di cogliere un certo risentimento riguardo alle modalità di remunerazione a prestazione dell’attività svolta in ambito ospedaliero, di cui il sistema DRG (Raggruppamenti omogenei di diagnosi), fin dalla metà degli anni Novanta, rappresenta il caposaldo.
È certamente vero che l’enfasi sulla rappresentazione dell’attività tramite il sistema a prestazione incide, spesso, sia sulla remunerazione di risultato dei manager pubblici sia dei professionisti e che quindi tale risentimento sia in parte giustificabile. Vi è però un elemento paradossale che mi preme mettere in evidenza.
Negli ospedali a proprietà pubblica, di fatto l’indicatore “prestazione” non è l’unico fattore che determina la loro sostenibilità: infatti, essi vengono remunerati, tramite ripianamento, sul volume dei costi che sostengono e non sulle prestazioni; le prestazioni costituiscono, per gli ospedali pubblici, una prima valorizzazione che poi viene sempre integrata dal ripianamento, ed è logico che sia così, perché il fallimento di un’azienda a proprietà pubblica non è certamente auspicabile e, nei fatti, solo teoricamente possibile.
Dunque, se il professionista che lavora nel pubblico può sentirsi incentivato solo se produce quantità e non qualità (di qui la sua frustrazione), deve però essere consapevole che la sopravvivenza della realtà in cui lavora non dipende esclusivamente (e a dir la verità neppure per la maggior parte) dalle quantità prodotte.
Dall’altro canto, i difensori strenui del “prestazionismo” sono stati gli erogatori privati, capaci, con un certo grado di generalizzazione, di essere efficienti e perciò di “sfornare” alti volumi in relazione ai fattori produttivi impiegati, e, in molti casi, anche con alta qualità e perciò efficacia delle medesime prestazioni.
La pandemia Covid è stata, e purtroppo continua a essere, una grande cartina di tornasole anche per questo tema e mostra il forte limite che ha il sistema di pagamento a prestazione dell‘attività sanitaria.
Infatti, dal punto di vista gestionale, per gli ospedali a proprietà pubblica non cambia nulla (il ripiano rimane lo strumento con cui raggiungono il pareggio di bilancio), mentre i privati (almeno quelli che si sono coinvolti pesantemente con l’emergenza Covid) vanno in crisi: i costi rimangono quasi interamente (calano proporzionalmente solo gli acquisti di farmaci, presidi sanitari e protesi, il costo del personale rimane sostanzialmente inalterato e rappresenta il maggior costo di un’azienda sanitaria, pubblica o privata che sia), le prestazioni (e quindi i ricavi) sono calate almeno del 30%, gli ospedali privati rischiano perciò il collo.
Si è evidenziato quindi che la prestazione come indicatore prevalente (pressoché assoluto per i privati, l’istituto delle funzioni non tariffabili ha comunque un impatto limitato) non è adeguato a finanziare un sistema sanitario universalistico. Non che non se ne debba tenere conto, ma deve essere un indicatore correttivo, a supporto di un sistema che premi la qualità dei risultati e la capacità di risposta ai bisogni del sistema (di cui un fattore ma non l’unico è l’Emergenza/Urgenza in senso ampio, sia come “Pronto Soccorso”, sia come risposta a bisogni emergenziali come quello che stiamo vivendo) in rapporto alle risorse impiegate.
Ci sono almeno due aspetti che emergono da queste considerazioni: 1) un aspetto di breve periodo, vale a dire: se gli istituti previsti dal Decreto Rilancio, ma non ancora determinati nella loro modalità di applicazione, di maggiorazione della valorizzazione della attività Covid, non terranno conto di questo aspetto di inadeguatezza del sistema di valorizzazione a prestazione, le realtà ospedaliere di diritto privato, soprattutto quelle più coinvolte con l’emergenza, rischieranno il default; 2) un aspetto di medio-lungo periodo, per cui tutti i bisogni emergenti, tra cui la gestione della cronicità (che verrà acuita dal post-Covid) e la capacità di predisporre in tempi brevi soluzioni emergenziali a fabbisogni improvvisi, vedranno inevitabilmente un’impossibilità dell’operatore privato a dare risposte nell’ambito di un’economicità di gestione, e quindi il sistema perderà il fattore flessibilità ed efficienza dato dalla presenza di questo tipo di operatori.
In sintesi: premiamo esplicitamente la capacità di contribuire a fare sistema più che (o non solo) la capacità di incrementare il numero di prestazioni, sia per il pubblico che per il privato.