Il piacere è animale, la felicità umana, la beatitudine divina: “Beati voi (…) perché” annuncia Cristo mentre ridiscende dalla cima coi Dodici appresso. Ha parlato loro in gran segreto – il segreto delle cose intime, confidate, bisbigliate – e ora parla a gran voce alla folla: per parlare ai cuori è nato e venuto al mondo il Cristo.

Beati quelli che avranno nostalgia di Dio, dunque: correranno il rischio di ritornare a casa. Nel pianoro appena sopra il lago della pesca, Cristo acciuffa il mondo per i capelli e, come fosse un carro di fieno, lo ribalta all’improvviso: “Tu: che sei nato sotto una cattiva stella, che sei stato menato a dismisura, che hai i lacrimoni agli occhi, che hai sopportato le più sleali sozzure, che hai una fame assassina d’essere nel giusto, che hai scusato chi ti ha vomitato in faccia, che tieni il cuore ingenuo del bambino, che hai fatto guerra alla guerra, che sei stato massacrato pur essendo innocente. Esattamente tu: al quale hanno sputato in faccia, sotterrato da troppi processi, asfaltato d’ingiurie perché sei ‘dei miei’, proprio tu sarai beato!”.

Qualsiasi uomo, però, merita di essere combattuto con lealtà: per questo tutti gli altri, quelli che hanno compiuto le cose che gli ultimi hanno subito, maledetti. Non-beati: ecco dov’è andata a finire tutta la giustizia di scribi, farisei e dottori della legge che nelle ultime domeniche hanno tentato in tutti i modi di ficcar nel sacco Cristo. Non dire gatto finché non ce l’hai nel sacco! Tutta apparenza la loro: è necessario attendere la giustizia di Cristo per sapere com’è andata davvero la storia quaggiù. Il mondo ha le sue beatitudini: “Beati i giovani, perché erediteranno il debito pubblico” (H. Hoover). Cristo le rovescia: “Beati coloro che possono dare senza ricordare e prendere senza dimenticare”.

La felicità è una parola sopravvalutata: è la gioia che conta. Più della gioia, poi, c’è la beatitudine. Tant’è che, a sognare d’essere di Cristo fino all’osso, più che i comandamenti dovrebbero essere le beatitudini la vera metrica dell’esame di coscienza. “È pazzo!”, dicono in tanti sul pianoro. Lo dicono oggi, persino dentro le chiese: “Vuol troppo, Cristoddio. Tutto sì, ma non esagerare!”. La cosa è alquanto buffa: Lui parla da Dio, ha degli occhi che vedono nell’uomo anche ciò che l’uomo ancora non vede. Lo scruta, massacrato com’è da mille e più affanni, e gli sussurra: “Non sei proprio così, accetta che ti dica che dentro te intravedo cose che gli umani non possono immaginare. Fidati, maturerai e nessuno reggerà il ritmo tuo”.

Per diventarlo, però, non basta l’amore, occorre la follia dell’amore. Non val più il detto: “Prima voglio capire e poi decido se amare oppure no”. Così ragiona il mondo, con i suoi carri di fieno. Cristo li ribalta come fossero calzini: “Con me non vale! Rovescia tutto: prima ama, poi vedrai che tu inizierai a capire”. L’amore come prima forma di conoscenza. Nessun amore è perfetto: a renderlo perfetto è l’amore quand’è amato per quello che è, perciò “grande è la vostra ricompensa nei cieli” (cfr Mt 5,1-12). Amanti folli, non da calcolatrice.

Ce n’è una nona, di beatitudine, in allegato alle otto di Cristo: “Beato colui che non si aspetta più nulla perché non sarà mai deluso” (A. Pope). Perché lui sì che porterà la speranza a molti e correrà il dolce rischio di vedere i suoi sogni avverati: al suo cuore accadrà il rischio di piegarsi, ma non si romperà. Nel piano sopra il lago di Gennesaret, Cristo mette al mondo l’amore. Per trent’anni, l’età di Nazareth, lo ha fecondato, coccolato, atteso e immaginato: come i nove mesi di una madre incinta, di un papà in attesa. Mesi di dubbi, rintocchi, batticuori. Di ripensamenti, miglioramenti, chiarificazioni: baruffe, rappacificazioni. Poi, tutto d’un tratto, eccolo qui: è nato.

È giorno di grande paura: “Ce la faremo a tenerlo in mano?”. Della paura che, in un attimo, svanisce: “Ve l’assicuro, non temete: questo è l’amore. È mio, ma era destinato a voi. Abbiatene cura”. Alla faccia del mondo che vuol capire per poi decidere. Rischiando di perdere l’appuntamento.