Figli come cellulari

Ragazzi che appena usciti da scuola si liberano delle mascherine. Perché le parole degli adulti non li toccano?

La scena è di quelle che meritano un fermo immagine: centinaia di gruppi Facebook deplorano il comportamento dei ragazzi delle scuole superiori che, usciti da scuola, si liberano con disinvoltura della mascherina e si assembrano come se non ci fosse un domani.

Il fatto interessante è che le parole degli adulti non riescono più a raggiungere i ragazzi, non li toccano, non li smuovono. E questo, se da un lato è addebitabile al senso di immortalità che segna la giovinezza, quel credersi invulnerabili e invincibili che spinge ogni generazione a osare strade nuove liberandosi delle paure dei propri padri, dall’altro è la rappresentazione plastica di una incolmabile distanza tra generazioni che negli ultimi decenni è diventata sempre più drammatica.

Tramontata negli anni del boom economico l’esperienza del popolo, che osmoticamente trasmetteva i propri valori con la convivenza e il lavoro, si è affermata col sessantotto una concezione individualista della società dove parole come “servizio”, “sacrificio” e “bene comune” sono state soppiantate: gli adulti hanno reciso i legami con i loro pari e i loro padri, rendendo i figli una sorta di proprietà, una terra dove prolungare i propri desideri, cercare conferme e placare antiche frustrazioni. In pochi anni i figli, all’indomani degli anni di piombo, si sono trasformati in un bene di consumo e, come i cellulari, sono stati oggetto di avide attenzioni di padri e madri che cercavano il modello migliore, più funzionale e rispondente alle attese del consumatore.

È in quegli anni, certamente con maggior perizia che nelle poche righe a nostra disposizione, che va cercato l’inizio di quel fenomeno che la vicenda delle mascherine rende oggi evidente: i genitori si sono illusi di poter parlare ai figli direttamente, tranciando la loro appartenenza al gruppo dei pari, dimenticandosi che le parole non ci raggiungono attraverso i suoni, bensì attraverso gli occhi. Un ragazzo ascolta guardando e guarda non un adulto performante, ma un rapporto fra adulti in cui lo scopo della vita diventa contenuto e forma della relazione. Ma oggi, se tutto si consuma e i legami si disperdono, i ragazzi non hanno più alcunché da ammirare.

È a quel punto che i “grandi” cominciano a parlare con loro, nell’illusione che le parole educhino. È la malattia che ha colpito la scuola dopo il crollo del Muro: da luogo di passioni e di rapporti forti l’istituzione scolastica è diventata terra di monadi tra loro isolate – chiamate docenti – che ripetono ossessivamente contenuti di educazione civile, ambientale, sociale, sessuale che nessuno più ascolta. Le poche scuole che ancora funzionano hanno come segreto uomini appassionati e comunità di adulti legate da un’antica virtù parigina, la fraternità. Gli anni duemila hanno eretto a sistema l’ipocrisia per cui per trasmettere un valore, un’idea, un’etica sia sufficiente ripeterla. La follia della nuova educazione civica si fonda proprio su questo paradosso: siccome non abbiamo più niente da mostrarvi, da farvi ammirare, allora vi ripetiamo come vi dovreste comportare.

Benedette mascherine che smascherano il fallimento educativo di una generazione! Benedette mascherine che riportano a galla gli anarchici impulsi di un’adolescenza che non può essere tenuta a bada con le parole, ma che ha bisogno di ritrovare un villaggio per ricominciare a crescere!

Non è inutile a questo punto annotare che anche l’educazione cristiana – da quando è stata ridotta da esperienza di popolo a corte di “anime nane che ripetono gesti [e parole] e non sanno capire” – ha seguito la stessa china dell’educazione civile e famigliare, non incidendo più sull’esistenza e sul vissuto dei giovani che, lasciati a se stessi, o annegano nella violenza e nei beni voluttuosi del nostro tempo oppure cercano di appiccicare fra loro valori posticci e lotte romantiche, avendo però completamente perso la colla.

La pandemia ha reso dunque evidente l’abisso che separa una società moralista da un cuore che pulsa. E quel gesto di parodistica ribellione, la mascherina al braccio o sotto il mento, diventa così un monito per chi – volendo incontrare quei cuori – ha davanti a sé la sfida più affascinante: quella di riparare una per una ogni casa del villaggio. Un po’ come fece san Francesco che dal crocifisso di san Damiano scoprì che per riformare la Chiesa avrebbe anzitutto dovuto riparare la casa, ricostruire un luogo dove la vita la si impara perché la si vede, perché – in fondo – la si respira.

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