Il virus che tallona il Paese ha riempito i pensieri e catalizzato le attenzioni: ci apprestiamo a vivere un nuovo mese di aprile con una chiusura parziale di tante attività definite “non essenziali”, con la speranza che le curve si appiattiscano e nell’attesa della primavera prossima per rivedere un barlume di normalità. Ci siamo arrivati grazie alla scommessa persa che il virus mutuasse o andasse via da solo, ci siamo persi tra protocolli e procedure nel mentre le cose sostanziali sono rimaste dov’erano. Anzi, sono peggiorate. Nessun intervento strutturale per il trasporto pubblico, nessun efficientamento delle procedure, nessuna iniezione apprezzabile di risorse sufficienti nella sanità.
L’economia che aveva ripreso il fiato nel terzo trimestre con una crescita del 16,3%, grazie alla dinamicità del privato, torna a vedere la recessione e le chiusure, mentre un pezzo del Paese si dibatte ancora tra le crisi reali che nessuna narrazione può smentire. Tutte le crisi aperte all’avvio della pandemia sono ancora lì. Ed anzi esplodono, facendosi notare anche nel pieno della ripresa dei contagi.
Whirlpool ne è l’emblema. Il sistema Paese, alla prova dei fatti, non riesce a dare nessuna risposta reale e uno stabilimento di eccellenza, con tanti operai premiati, con una storia di successo alle spalle viene chiuso inderogabilmente da oggi. Non è la solita storia di abbandono da parte della politica, che anzi sul tema ha disperatamente cercato una vittoria sulle scelte della multinazionale, ma una storia di speculazione politica fatta sulla pelle di quei lavoratori e di tutte le crisi aperte nel Mezzogiorno.
La soluzione era solo quella di intervenire nel capitale e non darla vinta a Whirlpool, che mai ha receduto dai suoi passi, ma gli attori di quella storia sono già altrove. Arcuri è proconsole alla crisi nominato da Conte e non si occupa più di aziende e sviluppo ma di bandi pubblici, come un impiegato qualsiasi. Di Maio naviga su jet presidenziali in Israele a pregare col popolo ebraico, dopo avere per anni giurato sostegno allo Stato palestinese. I dirigenti del Mise sono cambiati tante di quelle volte che ormai non si sa chi se ne occupa.
Tutti costoro sono altrove, lasciando il cerino nelle mani dei lavoratori licenziati. Gli stessi lavoratori che invocavano il nome di battesimo dell’ex Ministro dello Sviluppo e del Lavoro sotto le sue finestre e che oggi continuano a occupare la fabbrica sperando in qualcosa, avendo creduto nella splendida narrazione del ragazzo di popolino venuto a sconfiggere disoccupazione, povertà, inquinamento e ogni altro male grazie al potere dei meme, delle immagini col logo e gli slogan da stadio, che avrebbero aperto il futuro radioso, un futuro in cui vale solo ciò che si propaganda, non ciò che è.
Il consenso due anni fa fu plebiscitario. Un’adesione totale. Tutto frutto dell’illusione, fomentata dal genio di Casaleggio senior, che entrò nei cellulari di tutti con una forza persuasiva mai vista, convincendo milioni di persone che venire dal nulla era un ottimo modo per fare qualsiasi cosa. Invece era la narrazione di vite ordinarie che divenivano protagoniste non della rappresentanza, ma del potere. Non voci nuove, ma carriere. E quelle mistificazioni sono state usate anche per narrare la crisi di centinaia di famiglie, a cui si è giurato che una soluzione arrivava.
Ma mancando sin dall’inizio una strategia industriale, unica soluzione è stata la fuga. Come i bimbi che scappano quando cade il barattolo di marmellata preso di nascosto. Verso altri incarichi, verso altri palcoscenici in cui proporsi senza ritegno. Il tutto per convincere che si possa evadere dalla Storia ed evadere da ciò che sappiamo, ovvero che quando affrontiamo un qualche problema della vita o del lavoro cerchiamo di attingere dalle competenze e dalle esperienze che possediamo per capire come risolverlo. La formazione di ciascuno parte dai problemi semplici per poi affrontare quelli più complessi, favorendo la maturazione di nuove competenze appoggiandosi su quelle già acquisite.
In politica dovrebbe valere più o meno lo stesso principio. Ma oggi la conquista del potere è un gioco di apparenze e di percezioni che nulla ha a che fare con la vita reale. Aver percorso il tragitto che parte dal cittadino per arrivare al potente, senza meriti se non la narrazione, è un elisir che convince che la narrazione può distorcere la realtà. Perciò non resta che narrare ai dipendenti della Whirlpool che va tutto bene, che tutto si risolverà. Può essere ci credano. Nel frattempo si sono risolti i loro rapporti di lavoro. E questo è un fatto. Non un racconto.
Nei prossimi giorni ci racconteranno che cos’hanno fatto per evitare le chiusure, ci narreranno dei loro eroici risultati, daranno la colpa a noi ed alla realtà che non si adegua al loro racconto. Mentre saremo fermi, nelle case o sul lavoro, con i ragazzi in Dad e tanti in difficoltà, dovremmo decidere come Paese se guardare in faccia alla realtà o credere ai racconti.
Sarà questa una prova di maturità per tutti. Perché si può ingannare qualcuno per tutta la vita o tutti per una volta, ma non si riesce a ingannare tutti per sempre. A meno che tutti non vogliano essere ingannati. E solo quando il Paese reale ne avrà avuto abbastanza delle narrazioni, solo allora potrà decidere con maturità e selezionare chi ha competenze e idee per affrontare i problemi. Altrimenti, come sappiamo, andrà tutto bene lo stesso in questa pandemia. Come per la Whirlpool. Basta crederci.