“Siamo confusi”: è quanto sottolineano alcuni degli interventi più lucidi dell’ultimo periodo (Palù, Polito, Tamaro tra gli altri). E ci sono effettivamente varie ragioni per esserlo:
• la pandemia è un tema nuovo e complicato, definito da indicatori matematici (R0, Rt) quasi “black-box”, di cui pochi avevano mai sentito parlare; sono state sollevate inquietanti insinuazioni spionistico-politiche di dolo, e non c’è nessuna chiarezza né sull’effettiva letalità del virus, né sugli eventuali strascichi da esso lasciati sui guariti;
• non si tratta evidentemente solo di un problema sanitario, da risolvere muscolarmente con il dispiego di un esercito di (seppur eroici) medici e infermieri e con misure di puro contenimento, ma un fitto intreccio di salute fisica, economica, psicologica, educativa e sociale, dove ogni mossa ha ripercussioni e potenziali effetti collaterali su tutte queste dimensioni;
• siamo alla continua, disperata ricerca di esperti, che diano certezze, che però non hanno. Eppure, nessun esperto si sottrae dal dire la sua sugli accadimenti del giorno in modo netto e dogmatico, in una Babele di commenti spesso diametralmente opposti e ritrattati ogni 48 ore. Il Governo, esso stesso alla ricerca di qualcuno che tolga le castagne dal fuoco e lo sollevi da ogni possibile accusa di inadempienza, ha più consulenti e commissari (Cts – tra l’altro, quante decine di membri ha il Cts? Iss? Arcuri? Colao?) di Alitalia;
• da mesi siamo sottoposti a una propaganda martellante che, in assenza di soluzioni efficaci e strutturali, cerca – spesso in maniera goffa, come con la proibizione della “corsetta” dello scorso aprile o i distinguo su attività motoria e sportiva, o con il continuo utilizzo di raccomandazioni morali e comportamenti da sceriffo – di metterci una pezza, tenendoci in casa, dipingendo rapporti sociali anche basilari come fossero peste, condannando la calzatura scorretta della mascherina, puntando il dito contro la movida, contro la troppa gente in giro, contro i giovani scriteriati, promuovendo apertamente la delazione. L’influenza subliminale si dipana nello stillicidio di numeri e tamponi giornalieri (dato irrilevante), nel “non dobbiamo abbassare la guardia” come giaculatoria, nell’irrituale uso dell’aggettivo “terrificante” – riferito alla crescita dei contagi – da parte del ministro della Salute. Fino a ricorrere, esaurite tutte le altre cartucce contro qualsivoglia obiezione, all’assurda argomentazione del “chiedetelo ai familiari delle vittime”, che è naturalmente d’impatto emotivo, ma non ha sostanza per suffragare l’adeguatezza di decisioni politiche.
A quanto vedo, una buona parte di questa confusione dipende dal fatto che nessun politico italiano, e tantomeno Conte – l’uomo dei proclami buonisti e dei Dpcm che correggono se stessi – si assuma il rischio di sintetizzare, vagliare e prendere decisioni proprie. Nel mondo del business, diremmo che manca un leader.
Premetto che “leader” non significa necessariamente dittatore, anzi, è proprio l’opposto – c’è vasta letteratura in materia (recentemente si è parlato del lavoro di Jacob Morgan). Come negli sport di squadra, leader è chi indica la meta, pianifica come raggiungerla, assegna i ruoli, sostiene i compagni e li fa lavorare di concerto.
Quando la situazione si fa dura, si rimbocca le maniche e sale in cattedra, parla a tutti, dirime la matassa, prende la decisione grave, e spiega perché lo fa. Angela Merkel, praticamente.
In Amazon, l’azienda che conosco meglio, come in tutte le tech companies, la leadership è oggetto di studio perpetuo. Jeff Bezos e i suoi più stretti collaboratori ne hanno sintetizzato le caratteristiche in 14 Princìpi, costantemente perseguiti da ogni dipendente, in ogni iniziativa verso i clienti e i colleghi. Ho provato a confrontare decisioni e comportamenti della nostra politica con alcuni tra i più significativi di questi Princìpi – per brevità, non a tutti:
• Customer obsession (traduzione: “Faccio di tutto perché il cliente sia soddisfatto, anche se mi costa”): l’unico rimedio finora adottato per frenare i contagi è la progressiva chiusura di sempre più attività, ovviando ai mancati introiti di imprenditori e commercianti con sussidi a pioggia. Quello che l’attuale Governo – statalista e assistenzialista nel suo Dna – non capisce è che ristoratori, gestori di palestre ed estetiste non vogliono solo guadagnare, ma lavorare: il lavoro è un elemento fondante della dignità e dell’autocoscienza della persona. Questa è la prima generazione di figli che vedono i genitori portare a casa soldi senza lavorare.
• Ownership (“Questo non è compito mio” è un’espressione che non esiste): dal lockdown di aprile in poi, si sarebbero dovuti preparare trasporti, ospedali e scuole all’attesa “seconda ondata”. Non è stato fatto – succede, si sbaglia. Ma ancor più stucchevole dell’inettitudine è il rimpallo di responsabilità tra Stato e Regioni. Al cittadino interessa poco di chi sia la colpa: è importante che si faccia. E al politico – che abbia a cuore il bene comune – dovrebbe risultare inaccettabile semplicemente lasciar la cosa non fatta. Se non la fa nessuno, la faccio io – è parte della sussidiarietà.
• Dive Deep (“Ho una comprensione dettagliata del problema, e agisco di conseguenza”): non ha senso agire con un approccio one-size-fits-all; certo è più semplice, ma non è efficace né sostenibile. Da Cagnoli a Favero, da Ichino a Rustichini, vari economisti e manager spiegano che territorio e popolazione vanno segmentati per analizzare, capire, agire. Una Regione è a grana troppo grossa, non ha senso chiudere i negozi d’abbigliamento di un paesino della Valtellina, solo perché a Milano c’è un’impennata di contagi. Il fatto che gli anziani siano le persone maggiormente a rischio, è un’evidenza numerica: proporre misure in cui questi (nella loro libertà) siano più schermati e i giovani sani preservino una produttività è discriminante solo per demagoghi e moralisti.
• Think Big (“Fissati un obiettivo grande, e perseguilo anche se la strada è irta e il mondo all’inizio non ti capisce”). La scuola è una priorità assoluta in ogni società civile, e l’Italia è la nazione che pone i maggiori limiti alla scuola in presenza. Perché? Per non mettere i trasporti sotto pressione. Seriously??!! I ragazzi (anche le mie figlie) e i professori (quelli che non si sono rifiutati di presentarsi al lavoro) si stanno comportando alla grande, e nulla è loro tolto della possibilità di vivere al 100% in questa condizione. Ma noi dobbiamo fare di tutto per cercare di riportarli alla soluzione migliore, che è la scuola in presenza. Quindi, anziché pagare sussidi e ristori vari, se il tema operativo sono i trasporti, perché limitare la capacità dei mezzi al 50%? Dovremmo invece raddoppiare o triplicare il numero di mezzi di trasporto – in particolare in una città-traino del Paese come Milano – e assumere disoccupati come conducenti.
Se il problema sono i comportamenti scriteriati di pochi (almeno nelle mie osservazioni), la gente è a casa bloccata, ma ancora artificialmente a busta paga per il blocco dei licenziamenti (ingessante accanimento terapeutico), perché non potenziare con assunzioni mirate le forze dell’ordine e i controlli, punendo duramente gli indisciplinati e lasciando gli altri più liberi di produrre? Se abbiamo ospedali e terapie intensive pronti all’uso, come in Fiera Milano, perché non assumiamo medici e infermieri, in Italia e dall’estero, in modo da raggiungere una densità di terapie intensive per 100mila abitanti paragonabile a Svizzera, Spagna, Germania?
Tutto questo ci costerebbe come sussidi e ristori, forse qualcosa in meno, ma ci aiuterebbe ad affrontare le situazioni e a promuovere una cultura della laboriosità, non solo a ripararci fatalisticamente dagli eventi naturali.
• Earn Trust of Others (“Guadagnati la fiducia degli altri”): da mesi ci ripetono che “andrà tutto bene”; Conte assicura che, rispettando le misure, passeremo un Natale sereno. Sappiamo tutti che a Natale non saremo fuori dalla pandemia, che il vaccino non sarà pronto e comunque non sarà distribuito. Ilaria Capua – una che ne sa – spiega che il virus probabilmente diventerà endemico (cioè, non scomparirà mai) e gli anticorpi – anche quelli generati tramite vaccino – potrebbero essere di breve durata. Quindi, l’Ottimismo volontarista di Conte non convince nessuno e, alla lunga, genera sfiducia in chi guida, frustrazione, spaesamento, stress da incertezza.
Così ragionano le aziende di successo; perché non pretendere un simile approccio da un Sistema Paese, che voglia essere credibile?
È naturale sbagliare, di fronte a una realtà nuova e complessa – sbaglieremmo e sbaglieremo tutti. Ma cerchiamo di imparare dalle lezioni e dagli errori e migliorare. Si può però sempre ricominciare, fin da ora: nella business culture americana, il fallimento è parte del gioco – si legga il grande “What I learned losing a million dollars” (“Quel che ho imparato perdendo un milione di dollari”).
Propongo delle priorità strategiche, che si possono realizzare: scuola in presenza, il prima possibile; trasporti potenziati; chiusure più localizzate; differenziazione di azioni per fasce d’età e patologie – incluse ore di apertura di negozi, supermercati e farmacie riservate a questi segmenti; controlli più capillari, duri e consequenziali; meno sussidi, ma più investimenti e assunzioni in trasporti, forze dell’ordine, infermieri e dottori.
Per il resto, serena attenzione e libertà di produzione attiva da parte di chi può e vuole. E, soprattutto, lavoriamo fin da subito per ricreare, nel tempo, una classe politica di leader, capaci di scelte intelligenti, coraggiose e realiste, e orientati costantemente – pur negli errori che capiteranno – al bene comune, e non alla preservazione della specie.