Siamo di nuovo alle prese col il tempo ed i suoi paradossi. Nonostante le giornate trascorrano ed i mesi pure, siamo tornati al punto di partenza. Marzo è oggi. Con il terrore che è diventato paura consapevole e con la speranza che, ormai svanita, lascia spazio ai rimpianti.

Non è stagione di balconi della speranza e molto cinismo si è impadronito dell’umore delle case e delle aziende. Non ne verrà molto di buono, ormai lo sappiamo, dalla riapertura. Quando ci sarà, perché molta parte del ceto politico non ha potuto o voluto mettere mano ai problemi reali. In questo clima lo scontro tra diversi livelli di governo e tra singoli esponenti è ormai quotidiano, anche nelle stesse aree politiche. È il sintomo che si sta disgregando sia la maggioranza che appoggia il governo sia la minoranza. E tutto ciò, in realtà, è forse il tilt che serviva per aprire una stagione nuova e diversa a livello nazionale e locale.

Il Mezzogiorno sta soffrendo della sua storica carenza di servizi e della trappola della spesa storica, che ha condannato un’intera generazione ad un’insostenibile differenza di spesa, una vera propria condanna, frutto degli accordi di inizio anni duemila per cui si può spendere solo quanto si incassa ed al massimo si ha diritto a una perequazione, quando va bene.

L’effetto è stato un solco che solo da poco è stato messo in evidenza nella sua folle costruzione e nei sui effetti. Intere aree delle regioni del Mezzogiorno non hanno medici e personale qualificato sufficiente perché sono costrette da anni di commissariamento a bloccare le assunzioni, senza possibilità di investire sulle strutture. E così è per le infrastrutture, per gli investimenti in ricerca, per la reazione ai numeri dello spopolamento legato alla disoccupazione.

Il Governo non ha dato nessuna risposta ai questi temi, anzi pensa solo di averlo fatto stanziando somme in emergenza. Le risorse non si sa dove siano bloccate, se sono state affidate alle regioni, ma la crisi profonda della sanità calabrese, i litigi tra De Luca e de Magistris e le le contraddizioni di Emiliano nella gestione di questa delicata fase, unite agli sperperi siciliani, non appaiono neppure affrontate dalla politica. E sono figlie del tilt istituzionale del sistema di governo del territorio. Ognuno rivendica quel poco di spazio decisionale che ha per dimostrare che non è abbastanza ampio per assumere le decisioni sufficienti a garantire sicurezza e benessere. La gara è a dire “non spetta a me”.

Questo cortocircuito va risolto, se non si vuole continuare a creare alibi e rimandare le soluzioni. Una ipotesi è quella di rivedere le materie affidate alle regioni dalla Costituzione e riportare sotto il coordinamento dello Stato i livelli essenziali di gestione della vita dei cittadini, rimettendo mano alle modifiche anni fa votate e approvate con lo scopo, irrisolto, di contenere la rabbia territoriale di alcune aree del Paese.

Ora che la crisi pandemica ha mandato il tilt il sistema, si deve rimettere mano al modo di decidere che il nostro sistema istituzionale ha creato negli anni. La somma di decisioni tardive e inefficaci del Governo, unita all’ormai devastata macchina di governo delle regioni, soprattutto nel Sud, hanno creato un clima di perenne attesa insoddisfatta. Non partono i cantieri, non si avviano le assunzioni e non si coordinano le politiche di investimento perché per decidere si deve passare attraverso un percorso accidentato fatto da burocrazia inadeguata e condito dalla supponenza di chi le governa. E così è anche per le grandi aree metropolitane del Mezzogiorno, anche esse imbrigliate in meccanismi privi di logica e di efficienza.

Il Parlamento, che in questa crisi ha solo ratificato quanto promosso dai famigerati Dpcm, ben avrebbe potuto con rapidità affrontare il problema e mettere mano a questo tema, avrebbe certamente fatto un servizio al Paese e avrebbe soprattutto agito in modo da offrire anche al Mezzogiorno un sistema istituzionale efficiente. Invece quel luogo è animato da scarse pulsioni politiche reali e da fin troppo stupiti beneficiati che nulla hanno a che vedere, per moltissimi, con le qualità da legislatore che sarebbero utili ed opportune. È, a ben vedere, un altro effetto del leaderismo esasperato che ha promosso a rango di parlamentari tanti che nulla sanno di ciò che serve, ma che rispondono con solerzia alle indicazioni che ricevono, con spirito acritico.

Ora che il sistema è in tilt e che tutti avremo tempo per riflettere e pensare, un pezzo dei pensieri dovrà occuparsi anche di come si voglia, usciti dalla crisi, decidere e governare i territori del Mezzogiorno. Se sia utile, ad esempio, mettere un pezzo delle competenze nelle mani di strutture nazionali ad hoc che superino i singoli governatori per sempre, dando allo Stato il ruolo di garante ed esecutore delle decisioni. Non dei Commissari alla spesa, come quelli nominati in questi anni per rientrare dal “debito sanitario” (espressione umiliante per i cittadini) come accaduto in questi anni, con poteri solo per tagliare e non spendere, ma dei Commissari alla crescita, con il compito di investire, spendere e decidere nel Mezzogiorno.

Servirebbe una ripartenza coordinata e forte, che agisca senza la supponenza dei burocrati e senza avere il timore di mal di pancia di qualcuno dei governatori, perché quelli che stanno perdendo in questa i crisi sono i cittadini, soprattutto giovani, del Mezzogiorno a cui questo immobilismo conflittuale sta rubando una fetta decisamente importante di futuro.

Ne prendano atto le forse politiche e si attivino, se possono. Stavolta non si canterà dai balconi.