Se n’è andato un pezzo della mia vita, un uomo a cui devo tutto, di cui si sarebbe dovuto parlare di più quando era vivo e che ora deve essere ricordato.

Sabato scorso è morto Klaus Haagen, 76 anni, il mio amico e professore che aveva seguito la mia tesi di dottorato e con cui ho lavorato in molti anni di ricerca. Era nato a Wohlau (Slesia, Germania) nel 1944. Dopo la guerra visse il trauma di quei tedeschi che dovettero abbandonare la loro casa finita in Germania Est trasferendosi a Kelheim (Baviera). Studiò Scienze economiche e statistiche all’Università di Monaco e dopo un periodo come research fellow nel Dipartimento di Statistica dell’Università di Berkeley (California), dal 1981 si trasferì all’Università di Trento dove, divenuto professore ordinario di statistica matematica, prestò servizio ininterrottamente fino al raggiungimento della pensione nel 2014. Ha orientato la sua ricerca nella direzione dei modelli stocastici con variabili latenti, scrivendo numerosi articoli sulle più importanti riviste statistiche internazionali. Sui temi trattati ha scritto anche numerosi saggi e ha fondato in Italia con l’editore Springer una collana di quaderni di statistica.

Incontrai Klaus nel 1984, all’inizio del secondo anno di dottorato. Mi affascinò subito con le sue lezioni sull’algebra lineare e i modelli con variabili latenti. Professori eccellenti ne avevo avuti molti durante il dottorato, ma Klaus mi conquistò quasi con un colpo di fulmine per la passione per la ricerca del vero che caratterizzava il suo impegno scientifico. Il punto cruciale della sua produzione si focalizzava sul fatto che certi modelli, allora e oggi in gran voga, non avevano soluzioni uniche, come si poteva dimostrare matematicamente in modo inequivocabile. I risultati raggiunti in innumerevoli applicazioni possono essere confutati e, con gli stessi dati e con le stesse ipotesi, si può giungere a soluzioni dal significato opposto. Che non se ne traessero le conseguenze era per Klaus una menzogna, la cui portata andava ben al di là dei confini della statistica. E non aveva torto, perché sulla base di questi modelli venivano e vengono suffragate molte affermazioni che hanno grandi conseguenze nei più svariati campi, dalla sanità ai trasporti, dall’educazione alla valutazione delle policy.

Quando Klaus invitò a Trento i principali studiosi dell’argomento a livello mondiale, non ebbe alcun timore reverenziale nel confutare le loro teorie. Questi, di fatto, non accettarono un confronto aperto e assunsero atteggiamenti difensivi. Alcuni chiaramente non volevano rischiare soldi e potere.

Klaus Haagen mi coinvolse nei suoi studi, non solo per la grande passione e lealtà nel conoscere, ma anche per una gratuità profonda, che si traduceva in un coinvolgimento autentico e amicale anche con persone come me, più giovani e meno preparate, che non offrivano garanzie di successo. Si prese cura di tutte le mie enormi lacune conducendomi passo passo a fare una tesi che è stata ritenuta brillante, e poi, negli anni subito dopo la tesi, a scrivere due articoli per due riviste americane molto importanti rinunciando a cofirmarle, come avrebbe potuto fare, e come avrebbe fatto qualunque altro professore.

La collaborazione tra noi era esaltante sul piano umano e scientifico: pochissime parole, ma un affiatamento perfetto, una determinazione totale in quella missione per la ricerca della verità a cui asservivamo la statistica.

Pochi anni dopo averlo incontrato, però, si palesò in tutta la sua gravità il male che aveva iniziato ad affliggerlo da quando aveva 31 anni, e di cui lui, discreto come era, non mi aveva parlato: il Parkinson. Una malattia strana e devastante, anche vista l’età, oltre che progressiva: il suo corpo rimaneva per alcune ore come senza benzina (la dopamina), paralizzato, anche se in apparenza tutto sembrava normale. Per la vita di Klaus l’impatto del Parkinson è stato particolarmente forte perché era un atleta: alpinista provetto, quasi professionista, cultore della mountain bike e di altri sport. Mi capitò di andare a Trento a lavorare con lui, ma di rimanere ad aspettare un’ora fuori dalla porta di casa perché era rimasto bloccato nella vasca da bagno, mentre il giorno prima, in perfetta forma, aveva scalato il monte Bondone in bicicletta.

Nel momento più delicato della mia carriera, il giorno prima dell’esame orale per diventare associato, Klaus venne da Trento a Roma, per aiutarmi a preparare la lezione: quella sera me lo ricordo tremante, sofferente per la malattia, ma non smetteva di darmi consigli, di correggermi, di spronarmi. Quando penso a cosa significhi il “dono di sé commosso” che è la carità, ho in mente questa immagine, che non mi abbandona mai.

Nei nostri 40 anni di amicizia non l’ho sentito una volta sola lamentarsi della malattia. Klaus non si arrese mai, cercò sempre non solo di conviverci, ma di fare di tutto per guarire. Continuò a fare il suo lavoro di statistico, a cui aggiunse la ricerca scientifica sul Parkinson, che presentò a congressi di neurologia in India, Messico, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone. Scrisse, insieme al neurologo Niels Birbaumer, anche un libro autobiografico, “Pensare, solo questo rimane. Dialogo di un uomo senza corpo con il suo cervello” (Guerini, 2006).

Non si arrese mai neanche nel cercare le cure: quando ogni altra strada sembrava preclusa, accettò, tra i primi dieci pazienti al mondo, di subire un intervento al cervello per l’applicazione di uno stimolatore neurale del controllo motorio che gli prolungò la vita di decine d’anni.

Il suo era un desiderio indomabile per la vita. Fu don Luigi Giussani a raccontarmi un episodio di cui fu testimone. Erano ricoverati entrambi per un periodo di cure all’Elena Clinik di Kassel e un giorno si accorse che un uomo cercava da ore di superare un cavalletto di ferro senza deflettere mai: era Klaus. Posso dire di averlo visto in ogni momento della vita con quell’atteggiamento: non rinunciare mai a provare, a muoversi, a vivere intensamente tutto.

Era spinto da una grande forza che aveva dentro, ma anche da un’altra che veniva da fuori: la bellezza della realtà, del creato, delle persone. Infatti, era appassionato di fotografia e per anni immortalò ghiacciai, cime innevate, albe e tramonti mozzafiato, posti tra i più belli del mondo. Quando la malattia ne limitò la mobilità cominciò a fotografare oggetti della vita di tutti i giorni, come bottiglie di plastica o mollette da bucato che, sapientemente illuminate, diventavano un gioco di ombre e luci e si trasformano in immagini nuove e impreviste, che potevano sembrare le cime dell’Himalaya o le Alpi. Si mise sulle tracce della bellezza nascosta nelle cose di tutti i giorni, come disse in occasione di una sua mostra: “Tu giri tutto il mondo a fotografare la bellezza nei punti più lontani. Poi sei bloccato su una sedia, chiuso in una stanza, e ti accorgi che le cose cha hai intorno, che fino a quel momento hai snobbato, sono come i panorami più belli del mondo”.

Negli ultimi 25 anni si aprì al rapporto con i miei amici di Trento con cui condivise tutto. E così, Carlo Segatta, Giuseppe Folloni, Paolo Cainelli e molti altri, lo hanno accompagnato con la medesima gratuità, amicizia totale, fede schiva e profonda, fino alla fine di una vita vissuta con una dignità e una grandezza rare.