Nascere senza un pavimento che non sia la cruda terra e con un tetto fatto di lamiere, crescere tra le braccia di tanti fratelli che diventano bocche antagoniste all’ora dei pasti, vedere davanti a sé un futuro segnato solo dalla fatica senza emancipazione, una fatica antica che piega la schiena di un padre, è una esperienza ancora attuale in tante parti del mondo. Nessuno avrebbe voglia di guardare verso quelle aree sconfinate di povertà, la povertà nel mondo moderno è la colpa peggiore, e chi è povero diventa portatore di un fardello anche morale. Una condizione statica da cui non si può emergere, che anzi deve divenire la normalità per chi ci vive.
I poveri poi hanno abitudini spesso incomprensibili, retaggi culturali inesistenti, sono poveri anche di spirito e cultura e quindi vanno al massimo sostenuti e tollerati con azioni che tendano a tenerli a bada nelle loro case, un po’ meno sporche e con meno fame. Con sussidi e piccoli aiuti, ma che restino dove sono. Se vogliono emergere dal loro contesto devono anche abbandonare le loro culture. I loro luoghi. Un povero per emanciparsi dalla nascita in un pezzo di mondo del Sud affamato, può solo andare via, e passare dalla propria casa e dalla propria identità in posti in cui deve perder entrambe. Diventa un emigrante, che deve però adeguarsi, assumere una identità ed un modo di essere che lo faccia diventare assonante con chi lo accoglie. Non per adesione o convinzione, ma per omologazione.
Un povero che emigra perde quasi tutto se stesso e deve riaprire da zero, abbandonare anche i propri colori. Come Manfredi emigrato in Svizzera, deve tingersi i capelli e rinnegare se stesso. La povertà è un marchio che ti obbliga a rinnegarti. A mortificare ciò che sei stato. Spesso da queste storie di vita vengono fuori delle eccellenze che riescono con il lavoro e la fatica ad emanciparsi, a trovare una strada di benessere, ad essere parte attiva del nuovo mondo in cui si sono accomodati lasciando alle spalle le terre in cui sono nati.
Non per tutti è così, certo, ma tanti che emigrano lo fanno accettando la sfida di diventare altra cosa da se stessi.
Ma il sogno di ogni povero del Sud è quello di vincere rimanendo se stessi, di affermare la propria identità senza scendere a compromessi, di usare il proprio accento come punto di orgogliosa affermazione, di non piegarsi per riuscire, di vincere nella vita senza scendere a nessun compromesso.
Viene in mente il Massimo Troisi, che nel suo primo film, lasciando Napoli, veniva etichettato da tutti come un emigrante mentre lui rispondeva che era solo un “napoletano che viaggiava” e con la sua lingua universale riscattava se stesso e la sua terra, senza compromessi. O Pino Daniele, amato da tanti musicisti internazionali, che ha usato la sua lingua ed il suo dialetto per affermare ciò che era sin da ragazzo.
L’amore per loro è l’amore di chi vede emergere se stesso attraverso loro, di chi vede come la loro cultura, condivisa e collettiva, da loro interpretata ed esaltata, fatta di povertà materiale, possa emanciparsi attraverso se stessa ed il proprio talento. E così era per Totò, che della fame patita, dei vestiti lisi, della umanità dei vicoli ha fatto un archetipo talmente elevato da divenire comprensibile ovunque.
E di questi miti fa parte Maradona, la cui morte, non certo inattesa, ne ha reso ancora più evidente l’ineguagliabilità. Autentico esempio di mitologia moderna. Vana e per certi versi sterile la ricerca del perché. Maradona ha voluto vivere la sua vita, prima, senza mai nascondere la sua identità di povero, dopo, mostrando a tutti i suoi vizi e i suoi peccati. Senza affatto aspirare ad essere da esempio per nessuno, Maradona è sempre rimasto vicino a chi soffriva e a chi era più debole, sfidando i più forti.
Un capopopolo che ha incarnato come nessuno il desiderio di riscatto, dando vita a una straordinaria forma di immedesimazione tra un popolo ed un uomo. Non è il calcio che ha unito Maradona alle persone del Sud, ma il modo in cui ha usato le sue doti per non piegare mai la testa, dando orgoglio e forza a chi con la vittoria non aveva mai avuto troppo confidenza. Ha sempre scelto la strada più difficile ed ha regalato così la gioia a chi non ha altro che la gioia.
Era così il Mezzogiorno degli anni ottanta, con le baracche del terremoto che avevano la terra come pavimento, la disoccupazione ferocissima che portava alla devianza criminale quotidiana o alla emigrazione, l’immagine di un degrado diffuso a cui era meglio non guardare.
Maradona obbligò tutti a guardare in quella direzione, senza più pietà, ma con il rispetto che si deve ai vincenti.
Ma nessuno ha saputo proteggerlo, soprattutto da se stesso. La sua aurea di mito vivente lo ha di fatto reso prigioniero di se stesso e del suo essere, in fondo, un prodotto di consumo.
L’errore imperdonabile è non averlo aiutato, anche da parte di chi gli voleva bene. Come ha detto Valdano, qualcuno avrebbe dovuto dirgli la verità: guarda Diego, giochi a pallone come un dio ma sei soltanto un uomo.
I napoletani, come gli argentini, sono giustamente fieri che il mondo intero abbia attribuito a Maradona gli onori del mito. Abbiamo però il dovere di imparare dagli errori fatti, provando ad evitare che essi non si ripetano in futuro, confidando, per esempio, che non si affidi più il proprio riscatto solo a un capopopolo.