ELEZIONI USA 2020. La pace dell’impero. Il criterio di Sant’Agostino nella Città di Dio sembra essere il più adatto per affrontare i risultati delle elezioni negli Stati Uniti: il risultato migliore sarà quello che manterrà la pace nell’impero. A meno che si punti a una teologizzazione della politica e si aspetti da uno dei candidati la difesa di determinati valori. Non sembra conveniente, tenendo conto della condizione storica della società e dell’uomo del XXI secolo, il maggior bene possibile per tutti.

Pax AmericanaGli Stati Uniti non sono più l’Impero di 70 anni fa, anche se possiedono il 43% delle bombe atomiche del mondo e accentrano il 40% delle spese per la difesa. In tempi del tutto problematici come quelli in cui viviamo, gli errori di un gigante in lento declino, senza esagerare, possono accelerare la nascita della tempesta perfetta. 

Perché vi sia pace nell’impero occorre anzitutto una vittoria chiara. Se non ci sarà in Stati decisivi come Michigan, Carolina del Nord o Wisconsin, tutto si complicherà parecchio. I Governatori sono Democratici e i Parlamenti sono in mano ai Repubblicani: ciascuno potrà dichiarare il suo candidato come vincitore. Ci sono più che mai voti per posta e lo scrutinio di questi voti non apparirà nella notte elettorale. Trump potrà proclamarsi vincitore nel giro di poche ore e negare la validità del voto per posta, se non gli fosse favorevole. Il caos sarebbe grande.

Un chiaro vincitore e tanto meglio se il perdente fosse Trump e la sua Presidenza terminasse con il primo mandato. Il Presidente Repubblicano non è il demonio, però la sua uscita dalla Casa Bianca potrebbe fermare un po’ la segmentazione del Paese. Le politiche identitarie della sinistra statunitense, focalizzate su questioni di razza, sesso e etnia, hanno accentuato la frammentazione dalla fine del secolo scorso, hanno rafforzato la coscienza di appartenere a una comunità che stava al di sopra di tutto. Il pensiero delle destre negli ultimi anni non ha superato lo stampo identitario,  riversando contenuti diversi nella stessa struttura: la difesa dei bianchi che non vivono sulle due coste e che hanno sofferto per la globalizzazione, delle comunità religiose, dell’uso delle armi. Il progetto comune si diluisce. Non si deve governare per tutti, è sufficiente ottenere l’appoggio di un 30% della popolazione. Un Paese per quote.

Trump ha avuto l’intelligenza di mettersi in sintonia con chi non si sentiva rappresentato e il piano ha sedotto importanti comunità evangeliche e alcune cattoliche. Tuttavia, non è bene che il modello della polarizzazione infinita, basata sull’identità, si perpetui, perché mina le basi stesse della democrazia: la percezione dell’altro come un’opportunità. Non è opportuno che dal centro di uno degli  imperi si espanda, com’è avvenuto, un modo di concepirsi che non tiene conto dell’insieme. Né è conveniente che si appoggino modelli di democrazia illiberale.

La paura dell’altro, durante questi quattro anni, ha alimentato la retorica di Trump contro gli immigranti. Né il rafforzamento del muro, né la politica radicale delle espulsioni che aveva promesso sono stati portati a termine, ma la cultura del sospetto verso gli stranieri è stata dannosa e per molti è rimasta come ispirazione. Anche se, senza stranieri, gli Stati Uniti non potrebbero letteralmente funzionare. 

La difficile pace e lo sviluppo nel mondo passano da alcune questioni chiave: la risposta intelligente alle pretese egemoniche della Cina, la lotta contro il cambiamento climatico, il rafforzamento degli organi di governance globale, la pacificazione del Medio Oriente, il realismo verso potenze medie come Russia e Turchia, la continuità degli sforzi per il disarmo.

La riunione di qualche giorno fa del Partito Comunista cinese ha confermato che le aspirazioni espansioniste di Xi Jinping restano intatte. I quattro anni di Trump si sono dimostrati maldestri nel far fronte all’Impero che vuole prendere il testimone. La guerra commerciale con il gigante asiatico non ha rimpatriato le catene del valore, che avrebbero potuto migliorare l’economia degli Stati Uniti. L’uscita dal Partenariato Trans-Pacifico, con le sue alleanze ai due lati dell’oceano, è stato un errore, perché ha eliminato un contrappeso alla Cina.

L’appoggio al Governo radicale di Israele ha aperto ancor di più la ferita palestinese. Senza la pace in Terra Santa, il mondo a maggioranza musulmana rimarrà sempre in fiamme. Rompere con l’Iran ha comportato perdere la carta importante degli sciiti.

Trump ha voluto indebolire l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’Onu e il G20, non collabora al processo di disarmo, è uscito dall’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici  e si è scontrato con i suoi alleati della Nato. Non ha frenato la destabilizzazione che viene dalla Russia, non ha ipotesi su come rispondere alla Turchia, mentre Erdogan con il Qatar sponsorizza l’islamismo in Occidente.

L’imperatore non è dio né sacerdote, lo si giudica dal suo servizio alla pace.