Nell’emergenza permanente in cui ci troviamo sembra che a governare il Paese ci sia un premier, qualche ministro e un florilegio di task-force, comitati tecnico-scientifici, cabine di regia e commissari. Ce n’è alle viste, pare, un’altra, di cabine di regia, per come spendere i 200 miliardi del Recovery Fund, peraltro prima ancora di avere il suo bel Recovery Plan, come pure gli euri. A questo punto è stato giustamente osservato che un’impresa del genere non può fare a meno di una buona Pubblica amministrazione. Che però risulterebbe, secondo certe recenti analisi, poco adeguata. Il cittadino la conosce con il nome di burocrazia e ne fa normalmente non felice esperienza in termini di complicazioni, formalismi e lentezze da subire. Perché?

Perché si sono create storture non semplicemente organizzative, ma di cultura comune, quali ad esempio:

1. Il predominio della procedura sullo scopo finale, che è un bene per la società (produzione di carte a mezzo di carte, firmo se c’è già la firma prima, ecc.);

2. La rischiosità di ogni iniziativa e auto-attivazione che non siano quelle di default, il che porta ad auto-proteggersi dietro la regola e a non assumere responsabilità in proprio (da cui il rifugio nel punto 1);

3. La segmentazione della procedura, dell’iter di un provvedimento o di una pratica, che porta il funzionario o l’ufficio a fare il proprio “tratto di competenza” in modo avulso da una visione complessiva (tipo “fine tratto di competenza”);

Queste storture, nelle modalità in cui si manifestano oggi, sono anche esito dei due fenomeni a mio avviso più rilevanti dell’ultimo trentennio italiano: e cioè il dominio dell’etica giustizialista (noi siamo gli onesti, gli altri dimostrino la loro innocenza) e la politica manichea (noi tutto bene, gli altri tutto male). Il primo dominio crea paure paralizzanti. Il secondo impone i propri pretoriani senza riguardi per ruoli, professionalità, storie, ecc. Nota bene: l’uno e l’altro dominio sono espressione di una presunzione “rivoluzionaria” che agisce per rottura: facciamo piazza pulita, mandiamoli a casa, il nuovo che avanza, l’uomo solo al comando, il partito degli onesti, il partito dell’anti-casta, ecc. Se De Gasperi e Togliatti avessero epurato i funzionari della pubblica amministrazione che aveva lavorato sotto Mussolini, non si sarebbe saputo gestire il piano Marshall e dare impulso alla ricostruzione post-bellica.

Questi si aggiungono a difetti antichi del nostro sistema: la giungla infernale e cavillosa delle leggi (causa non secondaria delle complicazioni burocratiche, da attribuirsi però alla politica) e la concezione egualitaria, vagamente giacobino-comunista, del pubblico impiego, che esclude il merito e garantisce tutti al minimo, così produttività e innovazione vanno a farsi benedire.

La sostanza è che ogni crisi costringe a rivedere i parametri della nostra vita e della nostra organizzazione sociale, se non altro perché il dopo, possiamo esserne certi, non sarà come prima. Il tema della pubblica amministrazione, come quello della politica, dell’economia, della salute, lì ci riporta. Per questo ha senso parlarne.

Occorrono una nuova cultura politica e una nuova alleanza tra politica e pubblica amministrazione: la politica certo indica gli obiettivi, ma occorre la condivisione degli scopi in funzione del bene comune, un uso moderato dello spoiling system, la valorizzazione delle competenze (che ci sono), uno spirito non manicheo ma tendenzialmente bipartisan sulle grandi questioni, l’introduzione del criterio meritocratico e premiante a fronte dei risultati raggiunti, una buona formazione continua. Un buon tentativo di questo genere ho visto realizzato nella Regione Lombardia della presidenza Formigoni e del segretario generale Nicola Sanese, anello fondamentale di raccordo e feconda collaborazione tra politica e macchina operativa.

È tempo di uscire dalle secche del manicheismo politico e del giustizialismo pervasivo, dalla logica della rottura, della piazza pulita e dello scontro permanente.

Nel suo ultimo libro, Cambiamo strada, scritto dopo la prima ondata della pandemia e da poco uscito, il grande e quasi centenario intellettuale francese Edgar Morin ha indicato la necessità epocale di una Nuova Via. Via, sottolinea, non rivoluzione, non rottura (che non cambia ma peggiora le cose) e nemmeno progetto di società (della quale non si tratta di disegnare un’immagine statica, astratta). Ma appunto una Via segnata da un “vero realismo”, che non è non è la rivoluzione, neanche quella permanente di Trockij, ma la “rigenerazione permanente”, perché nulla è mai acquisito per sempre ma deve sempre essere rigenerato.

Si possono e magari si devono fare i master plan, se uno ci crede, ma soprattutto è bene guardare e valorizzare persone, luoghi, esperienze, tentativi dove si vede che lo studio, il lavoro, l’impresa, come la famiglia, la vita di quartiere o associativa è nuovamente generata. Qui e ora. Innamorarsi di questo, difenderlo, promuoverlo, traccia una via percorribile per tanti “noi”, non può non spingere a mettersi insieme. E col tempo non può non cambiare anche il proprio (e altrui) modo di fare politica e di amministrare il bene del Paese. O preferiamo un’altra task-force?