Il Covid, la carità e il medico

Il medico oggi è soffocato fra Stato e mercato. Ma non si può dare assistenza professionale senza riconoscere la carità, cioè senza amare chi si ha davanti

Ha suscitato molto scalpore sui media la decisione del ministero della Salute svizzero di astenersi “a priori” dall’offrire cure intensive ai malati di Covid-19 ultraottantacinquenni e/o agli ultrasettantacinquenni affetti da altre co-patologie. Oltre a diversi punti di “merito” assai discutibili contenuti nel provvedimento (per esempio, l’indicazione, nel caso fosse lo scompenso cardiaco la comorbidità associata all’età, della presenza di una Classe NYHA 2 come criterio di esclusione: criterio di valutazione molto soggettivo e presente nella gran parte dei malati di scompenso, oppure al limite posto di almeno 24 mesi di prognosi “quoad vitam” per offrire cure intensive, quando esistono device e/o farmaci oncologici assai costosi, di utilizzo routinario, che documentano efficacia in termini di sopravvivenza per tempi molto più ridotti), mi sembra che quanto accaduto suggerisca alcune riflessioni sulla natura della professione medica e di conseguenza sull’organizzazione sanitaria.



Il medico è oggi soffocato fra due poli: il “mercato” (l’azienda e il budget) e lo “Stato” (la politica). Ma la sanità come servizio alla persona non è finalizzata a questo, non è finalizzata né al mercato né allo Stato, che dovrebbero invece essere al servizio della migliore cura possibile per gli uomini sofferenti.



Di fronte a questa “pressione” oggi le risposte individuali non paiono essere sufficienti, sarebbe necessario una nuova “coscienza” e solidarietà tra professionisti, riscoprendo il carattere “laico”, umanistico, e la responsabilità sociale della professione. Impossibile?

L’esperienza italiana durante la pandemia Covid-19, ha visto i professionisti della sanità diventare protagonisti della scena pubblica come mai in passato. Perché? Perché la gente ha visto nei medici e negli infermieri qualcosa di più di una risposta reattiva, dell’esecuzione di un semplice “dovere”. Nella difficoltà e drammaticità del momento (per la prima volta peggiorate anche dal rischio personale di infezione) si sono incontrate persone contente di lavorare, che hanno lavorato bene, con soddisfazione: tanta stanchezza e poco burnout. Si sono così realizzate risposte operative che, pur nella loro provvisorietà, hanno costruito modelli da implementare e rendere stabili, non solo per affrontare un’altra ondata di Covid, come le circostanze attuali stanno facendo temere, ma anche per meglio gestire i problemi di sempre: quelli delle acuzie e anche quelli della cronicità, che non sono stati certo messi da parte.



Su che cosa si è fondata questa percezione?  Su un fatto nuovo. E’ apparso chiaro a tanti professionisti l’autentico “scopo” della loro professione. Non più un lavoro vissuto come tentativo di affermazione di sé, o subìto passivamente come alienazione: tutto ridotto a un problema di rivendicazione, rapporti di forza o interesse. Si è rifatta una esperienza umana autentica, di responsabilità personale di fronte alla realtà, finalmente libera da posizioni e logiche di potere e/o di ruolo.  Questo è accaduto perché molti professionisti sono stati “leali” a ciò che più corrisponde alla loro esperienza umana e che “vale sempre”: cioè il legame misterioso fra il bene di chi curi e il tuo bene personale.

Culturalmente questo ha implicazioni immediate: non si può fare assistenza senza riconoscere la carità, cioè senza amare chi si ha davanti.  “Anche nella società più giusta la carità sarà sempre necessaria perché la carità è l’inizio della giustizia, aiuto immediato dell’uomo verso il suo prossimo, che nessuna azione sociale potrà sostituire” (Benedetto XVI).  Questo ha reso possibile, in Italia, quanto sembrava impossibile: cercare sempre di sostenere e prendersi cura di ogni malato. La decisione della Svizzera è grave perché (lo dico da medico, da laico), dimenticando questa dimensione costitutiva della professione, ne ridurrà la qualità e la dedizione.

Infatti la frattura tra la professione e la propria esperienza umana (cioè la riduzione del lavoro sanitario a tecnica o competenza, per la conquista di carriera, successo, potere, o strumentale a strategie di comportamento più o meno scientificamente provate) è all’origine dell’incapacità del mondo professionale di manipolare l’ambiente, rendendolo ultimamente “schiavo” del potere di turno (la proprietà, il direttore generale, la politica eccetera). L’idea oggi prevalente è che chi (a qualunque livello) “organizza” il servizio, possa fare a meno di soggetti, di persone così.

Quello che invece ultimamente muove ogni medico, ogni infermiere, è fare bene il proprio lavoro, è una passione, è lavorare per il bene di tutti. Tutto quello che sta su, che regge, è perché ci sono persone che capiscono che la carità è la condizione per la giustizia. Se non riconosci un legame fra te e il paziente, non si costruirà mai nulla. Un ospedale se non lo ami, non produrrà mai qualcosa di giusto. Non ci si può occupare degli uomini senza aver presente la carità, non da chierici, ma da uomini.

I medici e gli infermieri non presumono di sapere a priori quale sia il bisogno dell’altro, ma vivono ogni giorno la percezione che l’altro uomo è un mistero, e che per averne cura si ha bisogno di tanto, di tutti. La vera medicina sta nell’accettare questa sfida, curare tutto l’uomo dall’inizio alla fine. E questo è frutto di una educazione, non l’esito di un protocollo di comportamento deciso dal “potere” o di un’organizzazione perfetta. Occorre ricostruire un soggetto professionale capace di interpellare tutti, anche la politica, su che cosa è meglio fare, su che cosa è utile per il bene di tutti.  Ma per tornare a fare questo, occorre il coraggio dato da un’esperienza umana e professionale integrale.

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