In questi giorni mi sono chiesto se esiste un’analogia tra Brexit e voglia di separatismo del Nord e se il Mezzogiorno d’Italia può ritagliarsi un ruolo del tipo di quello che riveste il Commonwealth quale mercato “esclusivo” per il Regno Unito. Da qui una serie di domande: il Meridione può essere una soluzione per la nostra economia? La questione meridionale è stata reale o è stata un’invenzione culturale? È stata risolta o è una questione irrisolta? La sua centralità, affermata dal meridionalismo, è stata merito di studiosi e politici perché reale o perché costoro  sono stati bravi a far diventare centrale un tema che non esisteva?

Il Meridionalismo è stato una proposta politica che ha perseguito l’integrazione del Mezzogiorno nello Stato unitario partendo dall’identificazione di quale fosse il divario Nord-Sud al momento dell’Unità. Le due aree erano diverse ed il tessuto economico sociale del Nord era, senza dubbio, più adatto del Mezzogiorno ad approfittare delle opportunità di sviluppo offerte dall’Unità.

Nel tempo il divario è andato progressivamente aumentando a danno del Sud, quale risultante dell’incoerenza tra unità politica e mancata unificazione economica. L’industria, fatta eccezione per l’industrializzazione indotta dall’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) durante il fascismo, resta legata all’agricoltura e ciò ha finito per ostacolare il sorgere di piccole imprese. Il Sud, fino al secondo dopoguerra, non ha avuto un ruolo attivo nello sviluppo economico italiano. In quegli anni Pasquale Saraceno dà vita alla Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) che si afferma come influente think tank e favorisce la nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Con essa nasce il “nuovo meridionalismo”, secondo cui non bisogna lasciar fare al mercato ed anzi propone un deciso intervento dello Stato.

Tra il 1957 ed il 1974, per la prima volta dall’Unità, si realizza una convergenza dell’economia meridionale rispetto alle medie nazionali: il divario scende di 19 punti in 23 anni, dal 53% del 1951 al 34% del 1974. I benefici della politica regionale (con i contributi a fondo perduto e in conto interessi), inizialmente limitati al sostegno delle piccole imprese, si estendono a tutti e le esigenze dello sviluppo industriale del Sud sono coincidenti con quelle dell’industria nazionale. Per la prima volta, ma per un breve periodo, si realizza una convergenza tra sviluppo locale e industrializzazione innescando un circolo virtuoso che dall’economia estende i suoi benefici alla società.

Il momento favorevole cessa con la chiusura dell’intervento straordinario provocato dalla crisi finanziaria del 1992. Dal 1998 il Sud è affidato alle Regioni con la nuova programmazione dei fondi europei e la riforma del Titolo V cancella, nel 2001, il riferimento al Mezzogiorno dalla Costituzione. Con l’affermazione dell’unione monetaria la Questione meridionale viene esternalizzata ed affidata alla burocrazia espressa nel rapporto tra Unione Europea e Regioni dell’obiettivo 1 (Agenda 2000; Agenda 2007-2013). L’introduzione della moneta unica, tuttavia, annulla lo scudo valutario e il sistema produttivo nazionale va in crisi, favorendo l’affermazione dell’idea secondo cui la via di uscita sia “sganciare dalla locomotiva del Nord il vagone del Sud” accusato, conclusione sfatata da molti studi, di sperperare.

È su questo substrato che si innesta la domanda su quanto sia importante per l’interesse nazionale recuperare il ruolo attivo del Mezzogiorno. La sfida attuale è di riuscire a riaprire, consapevoli che la forza politica e culturale è più esigua del passato, un confronto che affermi come passi per il Sud un realistico progetto di crescita del Paese.

Appare opportuno, quindi, riprendere i risultati degli anni settanta ed analizzarli più compiutamente. L’obiettivo è giungere ad elaborare una nuova politica economica che esalti il meridione quale opportunità per il nostro Paese in modo che si affermi l’Italia quale nazione unica. Tutto questo non è centrale o perché la questione meridionale viene ritenuta risolta, o perché mancano gli interpreti che nel passato, negli anni settanta, hanno consentito di porre al centro del dibattito il meridione come opportunità e non come vagone da sganciare. Bisogna, forse, superare la riforma del titolo V, che ha “certificato”, ahi noi, la soluzione del problema!