La ribellione delle femministe spagnole tradizionali chiarisce qual è l’ultima frontiera antropologica: la lingua, la grammatica con la quale si definisce la parola io. La polemica è incentrata sull’identità sessuale o di genere, ma potrebbe sicuramente essere sollevata in qualsiasi altro campo. Lo scontro si è scatenato perché il Governo di Pedro Sánchez e Pablo Iglesias sta spingendo per una “legge trans” diretta a rendere più facile il cambiamento di sesso. Il fondamento dei nuovi diritti, la capacità di autodeterminazione e di autonomia, che normalmente si sarebbe applicata alle azioni di una persona, viene trasferita alla persona stessa. La nuova legge, promossa da Podemos, trae linfa dai postulati di alcune dottrine queer (molto diverse tra loro) e punta su un “genere sentito” o “sesso sentito”. Praticamente, quando entrerà in vigore, la legge permetterà il cambiamento di sesso senza perizia psichiatrica. I minori potranno ricevere trattamenti ormonali o essere sottoposti a operazioni chirurgiche senza autorizzazione dei genitori.
Le femministe tradizionali, molte delle quali vicine al Psoe, hanno inviato una lettera al Presidente, denunciando che, con una tale legge, tutte le loro lotte in favore dell’autodeterminazione delle donne perdono significato. Sottolineano, giustamente, che i minori in crisi di identità sessuale, sempre più, devono essere accompagnati in un momento di transizione come quello della pubertà. Non è adeguato etichettarli come bambini trans.
Le femministe tradizionali rivendicano la distinzione tra sesso e genere. Il genere è una costruzione di stereotipi: non è la stessa cosa essere donna nel XXI secolo rispetto all’inizio del XX secolo. Sostengono la natura oggettiva del sesso e per questo contestano che possa essere determinato da una soggettiva autodeterminazione. Se il sesso non è oggettivo, è assurdo lottare contro le costruzioni di genere, culturali, che opprimono le donne. La soggettivazione assoluta di sesso e genere dell’ideologia queer, sostengono, perpetua il dominio sul genere femminile attraverso il patriarcato, la prostituzione o gli uteri in affitto.
La cosa interessante in questo dibattito tra femminismo e dottrine queer è la discussione sui limiti e il contenuto dell’autodeterminazione personale. Le femministe, molte delle quali sostenitrici del pensiero illuminista, affermano anche che l’autodeterminazione si esercita con un io che è in relazione con qualcosa. In questo caso, in relazione con il fatto di essere donna, di essere stata generata dalla natura con determinati tratti genetici, ormonali, anatomici e genitali, come dicono nella loro lettera. Qui è dove hanno tutto da perdere, non solo per una questione di potere: questa relazione ha cessato di essere evidente.
È sempre meno chiaro che l’autodeterminazione si esercita su un io che mantiene qualche tipo di relazione e trionfa un tipo di autodeterminazione che si avvolge a spirale su un io vacuo. È la fine di un mondo. Non è un passo in più nello sviluppo di nuovi diritti o una trasformazione come quella ipotizzata nel ’68, non è una messa in discussione della tradizione identificata come forma di oppressione. È un’incapacità di capire che l’io, il soggetto, abbia qualche tipo di solidità, sia preceduto da qualche dato positivo. Si può parlare di identità sessuale, ma anche di identità umana o transumana, di identità sociale o di identità di tribù. La cancellazione dell’io è la stessa.
Qualsiasi risposta simile a quella che hanno dato le femministe tradizionali, che invoca l’oggettività della natura umana, i criteri di una sana antropologia, i limiti dell’autodeterminazione o alcuni valori, può suscitare la simpatia di uno sforzo malinconico, ma sarà condannata in partenza. La ragione è un fenomeno storico e la ragione delle nuove generazioni è deprogrammata. Anche se vivono in relazione con qualcosa o qualcuno che li genera hanno una difficoltà immensa a riconoscerlo.
Non c’è altra strada che procurare a questi giovani un’esperienza che abbia come contenuto oggettivo relazioni nelle quali siano generati e si riconoscano generati. È un lavoro lento nel quale non è chiesta una buona teoria dell’autodeterminazione, ma un’esperienza dell’autodeterminazione effettiva e concreta. L’obiettivo è educare giovani che dicano io in un modo non conflittuale, sereno, sulla base di una relazione, di relazioni, che li facciano uscire dallo smarrimento e dal dolore nel quale vivono.