Davide contro Golia. Lo Stato, anche quello del Paese più potente del mondo, può rimanere disarmato di fronte a uno dei giganti della tecnologia. La settimana scorsa, la Commissione Federale del Commercio (FTC), appoggiata da 48 Stati, ha finalmente deciso di portare Facebook in tribunale con l’accusa di pratiche monopolistiche. La crisi del 2008 ci ha fatto capire qualcosa di essenziale: la deregolamentazione del mercato finanziario, iniziata con le rivoluzioni neoliberali degli anni ’80, e la sua globalizzazione avevano creato un capitalismo finanziario che rendeva antiquato il concetto di sovranità nazionale. Gli Stati si sono trovati piccoli e impotenti davanti alla “sovranità del denaro”. La digitalizzazione, accelerata dalla pandemia, rivela ora la fragilità delle sovranità tradizionali di fronte agli imperi che controllano i dati. Tornano così a essere necessarie le limitazioni al capitale, a un potere che ha come obiettivo il controllo dell’ultimo terminale del desiderio: l’attenzione.

Le autorità statunitensi hanno tardato molto più di quelle europee nel tentativo di arginare Facebook. L’iniziativa della FTC è stata presa dopo che l’Unione europea aveva richiamato la società di Zuckerberg al dovere di controllare la diffusione di notizie false e di informazioni che destabilizzano la democrazia. E dopo che la Commissione irlandese per la protezione dei dati aveva avvertito Facebook che non avrebbe potuto continuare a trasferire negli Stati Uniti dati del Vecchio Continente. Diversi procedimenti contro queste pratiche sono già in corso presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Non è affatto chiaro se la FTC potrà ottenere una sentenza che limiti l’attività di Facebook, perché le leggi antitrust negli Stati Uniti sono complesse e sono state promulgate prima che si sviluppasse la tecnologia attuale. L’agenzia governativa ha un bilancio di 330 milioni di dollari, mentre Facebook ha un fatturato di 21,5 miliardi di dollari. Probabilmente è ormai troppo tardi: sarebbe stato molto più facile evitare questa grande concentrazione se si fosse impedito a Facebook di comprare nel 2012 Instagram per un miliardo di dollari e nel 2014 WhatsApp per 19 miliardi di dollari.

Difficilmente un tribunale antitrust può frenare il potere non convenzionale che è arrivato ad avere una società con queste caratteristiche. Instagram non solo domina un ampio settore del mercato, ma detta anche modelli di socializzazione, entrando fino agli aspetti più personali del desiderio. Vedremo cosa implica il metodo che impiega l’azienda per “monetizzare” WhatsApp. WhatsApp ha più di due miliardi di utenti nel mondo ed è diventata in molti Paesi un’applicazione indispensabile per telefonare, fare videochiamate, mandare messaggi, lavorare.

WhatsApp si può trasformare in un grande supermercato dove uffici e imprese possono offrire i loro servizi e prodotti, o può voler diventare il portamonete digitale del futuro. E questo, secondo alcuni, potrebbe influire sulle modalità di conduzione delle politiche monetarie. Se Facebook può destabilizzare democrazie e Instagram ha contribuito a trasformare la coscienza che abbiamo di noi stessi, un WhatsApp che cerca redditività può, a sua volta, trasformare molte cose.

Bisogna tener presente che Facebook, quando si rivolge ai nativi digitali, si rivolge a persone che in cinque anni dedicano 10.000 ore ai videogiochi, inviano almeno 200.000 mail, passano 10.000 ore al cellulare, mentre dedicano solo 5.000 ore alla lettura. Un’autentica mutazione antropologica.

Di fronte a una simile situazione c’è da chiedersi come rendere attuali vecchi principi assolutamente validi. Per esempio, il principio che dà priorità al lavoro sul capitale, sulle nuove forme di capitale. O il principio che attribuisce agli Stati e agli enti sovranazionali, l’ideale sarebbe un vero governo del mondo, il compito di limitare gli eccessi del mercato. Tuttavia, la sfida fondamentale, come segnalarono già alcuni profeti più di trent’anni fa, è invertire l’equazione che rende più potenti i nuovi poteri e più impotente l’io, il desiderio.

La battaglia a favore del desiderio, nell’era digitale, si concretizza nell’attenzione. Solo un’attenzione duratura davanti a ogni aspetto della realtà rende possibile l’emergere della ricchezza di un io che sfida le nuove forme di dominio. L’attenzione, che è quella che genera dati, è diventata la merce più desiderata. Marc Prensky, l’inventore dell’espressione “nativo digitale”, quando qualche educatore si lamentava che le nuove generazioni avevano un deficit di attenzione, rispondeva in modo netto: i giovani che sono cresciuti con le nuove tecnologie non hanno deficit di attenzione, il problema è che gli adulti non sanno catturarla.

C’è una mutazione antropologica, ma l’uomo digitale continua a essere uomo e il cambiamento è un’occasione per riscoprirlo. Quel che occorre a Davide è addestrare la fionda del suo desiderio.