Dopo messi passati a fare di necessità virtù, ma fondamentalmente a far di tutto per cercare di mandare avanti la vita come sempre; dopo mesi passati ad aggrapparsi a una o all’altra interpretazione, idea, o fazione, per tanti sembra arrivato il momento di arrendersi. Arrendersi al fatto che la pandemia e il lockdown, messo in atto per fermarla sono una calamità in cui tutti perderemo qualcosa.



Tanti perdono la vita, tanti altri il lavoro e i soldi, tutti un po’ di libertà e serenità. Salute o economia? Responsabilizzazione o costrizione? No, la lettura binaria non tiene più, così come non tiene più la partigianeria di una posizione contro l’altra. C’è una perdita definitiva, per tutti, vuoi anche solo quella delle abitudini, c’è un lutto da accettare. Ed è impossibile farlo se si proietta sugli altri, sul “sistema” il disagio che si ha dentro, se ci si ostina ancora troppo ad accanirsi contro le colpe degli altri, rei magari di fatti specifici, circoscritti a un contesto, che però vengono generalizzati, divenendo colpe cosmiche (basta guardare lo scandalo che crea la diversità di opinioni e accenti tra scienziati, come se la conoscenza scientifica non fosse un continuo progress).



Il vaccino, i soldi dell’Europa, una politica migliore, sono tutte condizioni necessarie ma non sufficienti. C’è bisogno in qualche modo di fermarsi, sintonizzarsi sulle risorse che ci servono per attraversare questa emergenza e scoprire che le risorse ci sono e vanno giocate. Penso che riparte chi ha il coraggio di dire: perdo sicuramente qualcosa, però non mi fermo, vado avanti. Ma non ripartiamo per sola forza di volontà.

In questi giorni la perdita di Paolo Rossi ha fatto riemergere una storia sportiva e umana preziosa: quella del rapporto tra il calciatore e il suo Commissario tecnico Enzo Bearzot in occasione dei mondiali dell’82. Rossi, dopo due anni di squalifica per il calcio scommesse, tornò a giocare a un mese dal mondiale completamente fuori forma. Nelle prime 4 partite entrò in campo senza eccellere. Tutti, tifosi, opinione pubblica, esperti, giornalisti lo volevano fuori. Ma Bearzot, contro tutto e contro tutti continuò a credere in lui, forse a un certo punto, addirittura contro l’idea che Rossi stesso aveva di sé. Questa era la qualità che il Ct mise in campo: vedere il meglio che c’è nei suoi giocatori, addirittura più che i difetti da correggere. E possiamo supporre che questa fu la chiave per trasformare quella spedizione di tanti “io” in un “noi”, capaci di affrontare insieme le sfide più impervie. Quello che successe poi ormai è storia nota.



Ma è una storia che può ripetersi. Ecco cosa occorre: cominciare a scambiarsi uno sguardo capace di vedere risorse che nemmeno noi ci accorgiamo di avere.

Comunque, esistono ancora dei Bearzot capaci di infonderci quella fiducia più grande della nostra paura e trasformare l’individualismo che ci domina in carità e amore al bene comune. Sono gli insegnanti, i medici, gli infermieri, i lavoratori, gli imprenditori, gli uomini pubblici, anche i semplici amici della porta accanto che durante la pandemia hanno lavorato con coraggio e abnegazione, mossi da un vero amore al prossimo e alla nostra convivenza umana. Non basta lodarli: occorre seguire il loro esempio, farci sorprendere dal loro sguardo che ci sprona a servire quelle realtà sociali cui apparteniamo – famiglie, comunità locali, associazioni, movimenti, imprese, opere sociali e culturali – e, in modo non astratto, tutto il nostro popolo. Occorre con loro rimetterci insieme per ricostruire luoghi, fisici ma anche virtuali, dove imparare a convivere con la paura, dove il bene comune diventi opera fattiva, dove il sacrificio necessario sia accettato, dove la vita spesa per cose grandi e per gli altri sia una quotidiana esperienza.