Per salvare l’anno scolastico occorre tornare alla scuola in presenza. È il cuore dell’apprendimento.nell’attesa, interroghiamoci su come funziona il sistema

Un pendolo oscilla sopra la testa delle famiglie italiane: il pendolo della didattica. A distanza. In presenza. Tic, tac. Dad, non Dad. Tic, tac.  L’entusiasmo per la Dad di quei salottieri tv a pagamento che una volta si sarebbero chiamati opinion leader e adesso non saprei, si è spento con i primi mesi del nuovo anno scolastico. Adesso il pendolo segna presenza.  Didattica in presenza.

Le ragioni non mancano. Esistono studi che mostrano: deficit di apprendimento dei ragazzi e penalizzazione dei più poveri causa digital divide. Non mancano dati sulla crescita dei disturbi psichici e sugli incidenti domestici. E hanno anche calcolato le ricadute negative sui genitori, specie donne, che lavorano. Perché la scuola non è solo agenzia di apprendimento, è anche custodia di bambini e ragazzini. Che sia o non sia il suo compito istituzionale, lo è certamente di fatto.

En attendent che arrivi e passi la Befana e si torni a scuola in presenza, come stabilito dal comma 7048 bis del Dpcm 1702, si potrebbe fare mente locale sul fatto che i ragazzi dai tre ai diciotto (anche dopo ma qui non ne parliamo) sono l’impegno più sostanzioso per ogni famiglia e dovrebbero essere l’investimento strategico più importante per un Paese lungimirante.  L’impegno della famiglia c’è. La strategia lungimirante, palesemente, no.  Il capo del governo ci fa discutere da settimane su quanti possiamo stare a tavola a fare le feste al capitone la vigilia o al cappone nel giorno del Natale, e la prona informazione non si sforza di guardare oltre, dove vive e soffre e arranca la realtà reale.

Al dunque. In presenza. Ma perché? Basta la parola?

Ritrovo nei miei appunti qualche annotazione dall’ultimo convegno promosso da Russia cristiana sulla società digitale. Il professor Lorenzo Cantoni, docente dell’Istituto Tecnologie digitali per la comunicazione dell’Università di Lugano, avverte che nella storia dell’uomo l’insegnamento ha sempre integrato la tecnologia disponibile (dalla penna d’oca al computer). Ma non si può mai prescindere dalle grandi coordinate del rapporto maestro-discepolo: che sono lo spazio (fisico, psicologico, tecnico), il tempo (sincrono o in differita) e l’assistenza umana (tecnica, sui contenuti, sul processo dal non sapere al sapere). Morale: parlare di didattica significa parlare di rapporto educativo.

Dell’intervento di Raffaela Paggi, rettore della Fondazione Grossman di Milano, ho appuntato questo: “Introdurre alla realtà, fisica o virtuale che sia, andandoci dentro fino al suo significato: questa è la stella polare. Introdurvi ragazzi solitamente divisi tra desiderio di protagonismo e frustrazione da sfiducia nel futuro”.

Dunque presenza. Fin che si può. Più che si può. Perché, allo stato, funziona meglio per il bene dei ragazzi. Ma, attenzione, funziona meglio in quanto spinge a mettere al centro la relazione umana docente-discente, che al fondo non può che essere una relazione quasi di paternità-figliolanza. Di una comunicazione di sé da parte del docente, tesa ad accendere e mettere in moto l’io del ragazzo. Perché con questo c’è tutto. Senza, non c’è niente.

Sempre en attendant la vecchiaccia con la scopa, possiamo chiederci altre cose. Come genitori: se non sia meglio disporsi all’alleanza educativa con gli insegnanti piuttosto che fare i sindacalisti dei rampolli. Come insegnanti, se non sia meglio usare come bussola la vocazione educativa, come moltissimi, miracolosamente, mantengono ed esercitano, anziché il minimo garantito senza merito. Come governanti anche: se non sia ora di smetterla di mettere la scuola all’ultimo posto negli stanziamenti di bilanci e nella scelta dei ministri (da Giovanni Gentile siamo arrivati a Lucia Azzolina, non dico altro) e nella scelta del metodo. Vale a dire, se continuare a dirigere burocraticamente e astrattamente dal centro; a non dare spazio, respiro ed energie all’autonomia degli istituti; a tutelare tutti senza distinzione tra merito e demerito, a vantaggio di indolenti e profittatori di comode malattie e oculati permessi, e via discorrendo. Viceversa a non valorizzare e premiare l’ammirevole dedizione di chi ci mette la sua connessione internet, il suo pc, il suo tempo, il suo rischio, la sua passione… che in nessuna azienda al mondo sarebbe data per scontata come se nulla fosse.