A distanza di nove mesi dall’inizio della pandemia cosa mi resta di questa esperienza? Me lo sono chiesto più volte in questo periodo e mi sono dato questa risposta. Ho imparato, ho risperimentato che la realtà non tradisce mai. Bisogna guardarla per capire. Il lavoro nell’Unità di Crisi dell’AUSL di Imola, in cui sono Direttore Sanitario, è stato un’incredibile esperienza di squadra, di credito reciproco, di apertura a cogliere i segnali che venivano dall’esperienza sul campo.
Il Covid ha chiesto una riorganizzazione, a tutti, in tutti gli ambiti.
Ci sono due modi di organizzare: partire da un’idea, costruire la scatola e metterci dentro la realtà e quel che sta fuori pazienza, oppure partire dalla realtà (il metodo è imposto dall’oggetto) e farsi guidare verso i passi più adeguati, disposti a rivedere tutto quello che si sta facendo.
Si può? Noi ci abbiamo provato. I risultati si sono visti e in abbondanza, soprattutto grazie all’integrazione tra Ospedale e Territorio.
Una scelta che si è rivelata vincente è stata quella di creare attraverso l’Unità di Crisi una unica squadra con tutti i responsabili dell’organizzazione dell’Ospedale e del Territorio. Se integrati sono i bisogni, integrate devono essere le soluzioni e le modalità di governo.
E’ sul territorio che abbiamo sviluppato le azioni più efficaci per arginare l’impatto della pandemia. Abbiamo agito non per un programma predefinito ma in risposta a quel che avevamo di fronte. A metà marzo appena ci siamo resi conto che pazienti giovani arrivavano in Ospedale in condizioni critiche dopo aver resistito a casa per giorni con febbre alta e sintomi respiratori, abbiamo in pochi giorni rivisto la nostra organizzazione e deciso di mandare un medico ed un infermiere a casa dei pazienti con sintomi, segnalati dai MMG, per valutarne le condizioni ed avviare la terapia antivirale. Abbiamo investito molto su queste equipe (anticipando poi quelle che sarebbe stato il modello regionale delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale) dedicate alla gestione domiciliare dei pazienti Covid, attivandole 7/7 giorni e fino a 6 equipaggi giornalieri, in stretta integrazione con gli specialisti ospedalieri. A questo potenziamento dell’assistenza domiciliare, che ci permette di trattare a casa oltre 86% dei pazienti Covid, abbiamo affiancato altri interventi di potenziamento del territorio che si sono dimostrati altrettanto importanti (team per monitoraggio quotidiano degli ospiti delle strutture residenziali, potenziamento degli Ospedali di Comunità, potenziamento dell’attività di tracciamento dei casi e dei contatti stretti per isolare i soggetti positivi asintomatici, tutt’oggi operativo 7/7 giorni, ecc).
Non possiamo disperdere la ricchezza di questa esperienza, che ha dimostrato a tutti che si ha bisogno l’uno dell’altro, che la multidisciplinarietà e la multiprofessionalità sono un valore aggiunto da ricercare e difendere. Questo è il momento di rilanciare, è il momento di scendere in campo a testa alta e fare proposte che mettano a valore il positivo che in questa esperienza abbiamo sperimentato e sulle quali costruire insieme il futuro.
Dovrebbe essere sempre così. Le sfide non calano mai. A volte sono imponenti e dentro l’emergenza, come per il Covid, altre volte sono meno pressanti ma ugualmente cogenti, come nella vita di tutti i giorni. Impariamo dall’emergenza che ci sembra togliere il fiato e invece ci regala delle grandi opportunità per imparare a lavorare, anche fuori dall’emergenza. Il fatto che abbia iniziato a incidere sul rapporto ospedale-territorio è già un primo esito non scontato, da capitalizzare per il futuro, Covid o non-Covid che sia.
Siamo tutti stanchi. Ma vedo intorno a me il brillio degli occhi di chi si sente appagato, perché vede il “bene” che insieme agli altri sta facendo, che è il senso della nostra professione e della nostra vita.