Nei giorni di Natale, con o senza Covid, abbiamo tutti il desiderio di ascoltare storie di solidarietà, di amore, di veder nascere, fiorire la vita. E non credo proprio che sia una questione sentimentale, ma piuttosto il venire alla luce della nostra natura più profonda, l’esigenza di partecipare a quella “cosa buona” che Dio aveva in mente quando ha tratto dal nulla l’universo e – a coronamento del suo operato – l’uomo.

La commozione che tutti proviamo davanti al presepio nasce dal fatto che, consapevoli o no, ne siamo partecipi – testimoni di un bene che continua ad accadere, facendoci sussultare ogni volta come il bambino nel grembo di Elisabetta, perché si rivela più grande di noi, incommensurabile rispetto alle nostre forze e capacità, eppure si attua passando attraverso le nostre mani, le nostre parole, la nostra amicizia.

Come la storia che voglio regalarvi oggi: una storia vera, accaduta in uno sperduto villaggio della Russia e narrata in un libro – Takie dela, Così è la vita – che ci parla della vita sommersa, inedita, che sta crescendo in questo Paese che siamo abituati a guardare solo attraverso il prisma della politica. Una vita nuova che nasce dalla scelta quotidiana per il bene: un bene piccolo, quotidiano, fatto da gente comune che ha scoperto la bellezza della gratuità, della responsabilità, e che in questi anni si è gradualmente trasformato anche in progetti assistenziali, caritativi, sociali. Ma al centro, c’è sempre la persona, e il mistero del bene che può avvenire attraverso ciascuno di noi.

La protagonista del racconto è la maestra del villaggio, viene da Mosca, è alla sua seconda gravidanza: “So che deve nascermi una bambina. Tutti dicono che è un maschietto. Io non discuto, che senso ha, tanto so che è una bambina. So che ha i capelli scuri e gli occhi nocciola. Quattro mesi fa ho aperto gli occhi e ho visto una stella cadente sullo sfondo del cielo nero. Da quel momento ho saputo che ero incinta di una bambina con gli occhi nocciola. Perché discutere, gli altri possono dire quello che vogliono”.

Ma la vera protagonista è Olga, “l’infermiera del villaggio, una biondina gracile, magrolina… Olga è una leggenda. Quando è di turno, i malati non muoiono. Anche se ormai è proprio venuta la loro ora, fanno di tutto per aspettare la fine del turno di Olga e morire subito dopo. Quando è vicina a un malato senza speranza, sembra quasi che riversi a pieno getto la propria vita nell’imbuto della vita fuggente della persona. E a volte qualcuno ci ripensa e non muore più, e poi viene a ringraziare Olga. A volte Olga resta in ospedale per impedire a qualcuno di morire. Chissà come, lei sa per chi è venuto il momento, e chi invece deve aspettare ancora.

…A mezzanotte mi portano in ospedale con le doglie. Una contrazione ogni cinque minuti. Capisco tutto perfettamente. Sono alla ventiseiesima settimana di gravidanza. Alla mia bambina con gli occhi nocciola non ancora nata restano da vivere solo poche ore. La ginecologa è a casa. Non ha nessuna voglia di venire in ospedale per un caso disperato. È una notte di inizio primavera, c’è buio e freddo. Trovo ad accogliermi l’ostetrica, madre di una mia ex scolara. La sento telefonare a casa alla ginecologa. Il microfono del vecchio telefono è così alto che dietro la sottile tramezza di legno si sente tutto.

– Quanto è dilatata?
– Quattro centimetri e mezzo.
– E le contrazioni?
– Ogni due minuti.
– Cosa vengo a fare di notte, tanto partorisce comunque. Arrangiati tu da sola.

L’ostetrica porta la piantana per la flebo ed evita il mio sguardo. Sono su un lettino in corridoio. Nelle camere non c’è posto. L’ospedale è piccolo. Io capisco tutto perfettamente, ma non posso rassegnarmi al fatto che presto la mia bambina non ci sarà più.

– Che infermiera c’è di turno?
– Olga. Adesso la sveglio.

Per la mia bambina c’è speranza. Anche se tutti capiamo perfettamente tutto, siamo state fortunate. C’è qui Olga. È l’ultima cosa a cui posso aggrapparmi e credere. Credo in Olga.

Nella stanza delle infermiere si sente baccano.

– Ma perché non mi hai svegliato subito?!
– Cosa ti svegliavo a fare, se ha una contrazione ogni due minuti?!
– E a te che te ne frega?! – Imprecando, Olga vola per il corridoio, controlla la flebo. Anche lei evita il mio sguardo.

– Ormai non c’è più niente da fare, sei in travaglio. Prega.

Io capisco bene, ma mi aggrappo a Olga come a un filo d’argento che congiunge il mondo della realtà con il miracolo ultraterreno.

– Prega la Madonna, chiedile di salvare il bambino. Abortirai comunque, ma lui magari per miracolo sopravviverà. Anch’io prego.

Io non credo alla Madonna, ma credo in Olga.

– Olga, non so neppure una preghiera.
– Io le dico, e tu ripeti, – Olga si siede sul letto e mi prende la mano.

Obbediente ripeto seguendo Olga le parole della prima preghiera della mia vita. Non chiedo che il bambino resti in vita. Chiedo che non nasca. Imploro protezione e aiuto presso due madri. Vergine Maria, lasciami la mia bambina. Se me la lasci, le darò il tuo nome.

Ci teniamo per mano tutta notte. Alle sei del mattino le contrazioni si fermano. Alle otto arriva la ginecologa. Io dormo. Sono stanca.

– Si è addormentata? Bene. È tanto che ha partorito?

Non voglio vedere il medico che mi ha abbandonato di notte lasciandomi sulle spalle di un’ostetrica e di un’infermiera di campagna. Chiudo gli occhi e mi giro verso la parete. L’ostetrica le riferisce che il parto si è fermato. Mi portano in sala visite. Mi sono richiusa.

I parti non si fermano. Non sono cose che succedono. Ma con Olga non si muore. E se è una cosa molto importante e due donne chiedono a una terza di salvare un bambino, quest’ultima non può rifiutarglielo…

La mia bambina dagli occhi nocciola si chiama Marija. Lei pensa che l’abbia chiamata così in onore delle nonne. Quando a mezza estate l’ho partorita, sempre nell’ospedale del villaggio, Olga era venuta a vederla.

Forse, dobbiamo pregare perché negli ospedali non cessino mai di esistere delle persone come Olga, che non si arrendono neppure quando ormai non c’è più niente da fare?”.