È quasi un luogo comune ripetere – soprattutto nei giorni contigui al 7 dicembre – che Sant’Ambrogio è patrono di Milano perché ha dato forma al “carattere milanese”, che si distinguerebbe per operosità, concretezza e leale collaborazione dei cristiani con chi detiene il potere, per il bene di tutta la comunità civile.

Ma, al di là di queste affermazioni che rischiano di rimanere assai generiche, vale davvero la pena chiederci se qualcuna di queste tre caratteristiche possa ancora offrire una provocazione necessaria, una benvenuta sfida, un salutare pungolo alla coscienza dei singoli e alla comune riflessione. Se possa, cioè, contribuire a rimettere in moto quella disponibilità a pensare che appare – soprattutto in questo tempo colmo di incertezze paralizzanti – la prima grande risorsa da riattivare, perché non ci si rifugi in un fare confuso e arruffato, nemmeno capace di mascherare, con l’affastellarsi delle proposte e dei conati di azione, la mancanza di un obiettivo cui tendere e di una consapevolezza da cui trarre una solida base di partenza.

Proviamo allora a interrogare questo grande Santo che è stato prima di tutto un grande uomo, educato alla severa scuola del diritto romano e della dedizione alla res publica come orizzonte per cui ben valeva la pena di spendersi, che diventando vescovo di Milano scoprì che nulla del suo passato da governatore e giurista veniva rinnegato o diventava superfluo. Da lui raccogliamo tre pensieri relativi alle caratteristiche della “milanesità”.

Operosità. Ambrogio conosceva bene quel principio fondamentale del diritto romano che campeggia sulla facciata del Palazzo di Giustizia, luogo ben noto a tutti i milanesi: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere (“Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo”). Ma non si accontenta di questa definizione, codificata da Ulpiano e risalente a Cicerone, e la contesta apertamente in un passo del De officiis (I,130-131): “La giustizia si riferisce alla società e comunità del ge­nere umano… Noi però escludiamo proprio quello che i filosofi con­siderano il primo compito della giustizia. Essi dicono, infatti, che la prima norma della giustizia sia di non nuocere a nessuno se non provocati da un’offesa; orbene questa norma è annullata dall’autorità del Vangelo che esige in noi lo spirito del Figlio del­l’uomo, venuto a comunicare la grazia, non a recare offesa”.

La giustizia, quindi, non è un gelido rispetto delle distanze, che si consuma nel non interferire in alcun modo nella vita altrui. La vera giustizia, secondo Ambrogio, nasce per i cristiani da ciò che vedono esemplato nell’umanità di Cristo: non solo e non tanto non fare del male all’altro, ma “comunicare la grazia”, ovvero adoperarsi perché il prossimo possa conoscere il dono gratuito di qualcuno che ha a cuore il suo bene. Ecco la vera sorgente dell’operosità: il desiderio di un bene comune che i cristiani riconoscono come frutto del vangelo, ma che è accessibile a chiunque si veda oggetto di una cura inattesa.

Concretezza. In un altro passo del De officiis (II,73-75), dopo aver parlato della generosità di chi può offrire ingenti somme di denaro, Ambrogio continua: “Tali forme di liberalità… non sono alla portata di tutti. Moltissimi uomini buoni di condizione modesta… non sono in grado di contribuire per alleviare la povertà altrui. Esiste però un’altra forma di beneficenza con la quale possono aiutare chi sta peggio di loro. La liberalità, infatti, è di due specie: una aiuta… per mezzo del denaro; un’altra soccorre offrendo la propria opera, ed è spesso molto più splendida e luminosa. Il denaro facilmente si consuma, i consigli non possono esaurirsi. Questi con la pratica diventano più numerosi, mentre il denaro diminuisce e presto vien meno e lascia senza mezzi la stessa bontà».

La carità e la liberalità, dunque, per Ambrogio non si attuano solo (né principalmente) attraverso l’offerta in denaro: anzi, questa forma può perfino diventare controproducente. Ciò che più aiuta chi si trova nel bisogno è la concretezza di una presenza che si pone accanto, che condivide le domande e le preoccupazioni per offrire un consiglio e una compagnia. È la carità che non appiattisce chi la riceve in un atteggiamento passivo, ma lo aiuta a rimettersi in gioco, dentro un’amicizia che sostiene e rinfranca.

Leale collaborazione con chi detiene il potere. Ambrogio, durante la sua vita, ebbe a che fare (anche scontrandosi con loro) con diversi imperatori romani. Non mancarono momenti di confronto aspro e perfino rischioso, per il vescovo, che da parte sua non lesinò correzioni e rimproveri, soprattutto quando vi era il tentativo, da parte del potere imperiale, di imporsi sulla Chiesa per limitarne la libertà o per rivendicare un’assoluta autonomia dai principi morali. Proprio quando la tensione era massima, Ambrogio così scriveva all’imperatore Teodosio, che aveva ordinato una strage di cittadini inermi e non voleva accettare di sottoporsi alla penitenza (Epistula extra collectionem 11, passim): “Forse ti vergogni, imperatore…? Non dobbiamo meravigliarci che un uomo pecchi, ma è cosa che merita riprovazione se non riconosce di aver sbagliato, se non si umilia davanti a Dio… Sei un uomo e hai subìto una tentazione: vincila! Il peccato non si cancella se non con le lacrime e la pe­nitenza…”. Ambrogio non teme di ricordare all’imperatore che il potere espone alla tentazione di sentirsi illimitati, ma nello stesso tempo gli testimonia un’affezione che lo guarda come uomo bisognoso di salvezza, anche quando Teodosio in quanto persona rischia di essere nascosto dal suo ruolo, o, peggio, di volersi nascondere dietro ad esso.

Ricercare una giustizia piena di passione per il bene e la crescita dell’altro; riconoscere che ogni uomo ha in sé la ricchezza necessaria – in quanto persona – per diventare attore del bene altrui, quale che sia il suo censo. Saper guardare anche a chi ricopre posizioni di potere come ad un uomo che non deve scomparire dietro il ruolo, ma è chiamato a riconoscere il suo bisogno di salvezza. Ecco tre provocazioni che Ambrogio stesso ci pone davanti, e che rimangono come un dono prezioso ed attuale.