Di solito non ci si pensa, o non lo si sa, ma tanti italiani famosi sono stati migranti forzati. Nino Benvenuti, classe 1938, campione olimpionico e mondiale di boxe, è scappato da Isola d’Istria. Sergio Endrigo, classe 1933, cantante e musicista, è venuto via da Pola. La collega Wilma Goich, nata nel 1945, è stata esule da Zara poco più che neonata. Ottavio Missoni, del 1921, stilista, ha dovuto lasciare la natia Ragusa di Dalmazia. Abdon Pamich, 1933, mitico marciatore della 50 km, è fuggito da Fiume da ragazzino.

L’elenco dei migranti famosi potrebbe allungarsi di decine di nomi. Supera i 300mila nomi la lista completa dei cittadini di nazionalità italiana protagonisti (o vittime) dell’emigrazione forzata dalla Dalmazia, la Venezia Giulia e il Quarnaro. Si trattava prevalentemente di regioni italiane in seguito alla prima guerra mondiale, divenute con la seconda zone di persecuzioni ed eccidi ad opera dei partigiani titini, cosiddetti perché guidati da Josip Broz “Tito”, che sarà il primo capo della Jugoslavia comunista, alla quale i territori vennero ceduti nel 1947. Ai 300mila profughi vanno aggiunti numerose migliaia, forse decine di migliaia, di “infoibati”, cioè gente ammazzata e gettata nelle foibe, profonde e quasi sempre inaccessibili cavità naturali, da cui solo una piccola parte di cadaveri hanno potuto essere recuperati.

Oggi è la “Giornata del ricordo”. Si ricordano questi fatti che sono del 1945-’47. La Giornata invece è stata istituita solo nel 2004. Di mezzo c’è stato, incredibilmente, mezzo secolo di oblìo, indifferenza o negazione. In Jugoslavia, ovvio; e anche in Italia. Da parte della maggior parte dei politici (non solo i comunisti, che non erano maggioranza; certo loro in prima fila), degli storici (non solo comunisti, i quali comunque egemonizzavano per conto di Togliatti la storiografia dell’Italia contemporanea) e – ma c’è da stupirsene? – da parte delle scuole e dei manuali scolastici.

È caduta una censura, e questo – alla buon’ora! – è certamente positivo. È caduta fondamentalmente perché è caduto il sistema comunista in Europa e sono conseguentemente mutate anche l’assetto e le logiche del potere in occidente. Nessuno aveva interesse a rompere le scatole al compagno presidente Tito.

Mi resta aperta la domanda se adesso delle foibe e dell’esodo istriano si può parlare perché è cresciuto l’amore alla verità o perché non dà più fastidio a nessuno. Preferisco non darmi subito una risposta.

Si dice che la Giornate del ricordo, o della Memoria per quanto riguarda l’Olocausto degli ebrei, sono fatte perché “non accada più”. Tranquilli, accadrà ancora (in forme diverse, perché la storia non si rassegna al copia-incolla), se la “vita nella verità”, per rubare la bellissima espressione di Vaclav Havel, non prevarrà sulle ragioni del potere. Le quali, giustappunto, non esitano ad utilizzare la menzogna o la censura.

Inoltre la volontà di potere afferma sempre di agire per la giustizia, ed è quindi giustizialista. Così i partigiani titini “giustiziarono” chi non la pensava come loro; anche non fascisti o gli antifascisti (!), in nome… dell’antifascismo. Non quello dei democratici che hanno fatto passare la Germania e l’Italia alla democrazia, ma quello ideologico e strumentale che se non c’è il nemico fascista se lo deve inventare perché senza il nemico-male assoluto non si giustificano i propri mezzi, le proprie mire egemoniche, la propria volontà di controllare tutta la società.

Perché “non accada più” serve ben altro che un neo-antifascismo senza fascismo. Questo l’aveva già ben detto Pier Paolo Pasolini a metà degli anni 70 del secolo scorso. Serve intanto non solo sapere cosa è accaduto, ma anche perché per 50 anni lo si è obliterato o negato. Soprattutto occorre una nuova educazione al valore della persona, dell’io; perciò della convivenza come riconoscimento del valore dell’altro e della sua libertà e come cooperazione al bene comune; e della democrazia come pluralismo, non solo di opinioni ma di espressione concreta di ogni tentativo umano.

Attualissima l’osservazione del filosofo, cecoslovacco come Havel, Vaclav Belohradsky: “Tradizione europea – disse in una intervista – significa non poter vivere al di là della coscienza. L’irriducibilità della coscienza è minacciata nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, degli Stati totalitari e della generale computerizzazione della società. Infatti, è molto facile per noi riuscire a immaginare istituzioni organizzate così perfettamente da imporre come legittima ogni loro azione. Basta disporre di una efficiente organizzazione per legittimare qualunque cosa. Così potremmo sintetizzare l’essenza di ciò che ci minaccia: gli Stati si programmano i cittadini, le industrie i consumatori, le case editrici i lettori. Tutta la società un po’ alla volta diviene qualcosa che lo Stato si produce”.

Notare l’espressione “computerizzazione della società”: l’intervista è dei primi anni 80, quando non c’era ancora internet (nascerà nel 1991): ci aveva visto lungo. Adesso siamo ai Big Data, e chi li possiede comanda, perché sa fare bene e di più e tutto insieme quello che Belohradsky descrisse quarant’anni fa.

Va bene ricordare: se aiuta un giudizio sul presente, in cui il futuro… è già presente.