Usera, un quartiere con oltre 10.000 cittadini cinesi, una delle più grandi “chinatown” in Europa. Farmacie, supermercati, ristoranti e persino una messa alla settimana per i membri dell’Impero Celeste che sono emigrati a Madrid. Ci sono strade che sembrano quelle di Pechino. Molti negozi hanno chiuso, per precauzione. Perché non c’è nessun caso accertato, né sospetto, di coronavirus. Sulla vetrina di un negozio un cartello in spagnolo spiega che la chiusura è dovuta alle festività, ma un altro in caratteri cinesi fornisce una versione diversa: la chiusura è dovuta all’epidemia. Una doppia verità. Probabilmente per non creare un allarme inutile tra i clienti spagnoli o forse per la necessità di non essere troppo trasparenti: ci sono valori che superano la precisione informativa.



La mancanza di trasparenza, di efficacia burocratica del regime comunista è sulla buona strada per trasformare il coronavirus nella Chernobyl cinese. Il numero delle vittime è lontano da quello dell’incidente nella centrale nucleare ucraina negli anni ’80, ma la crisi politica e la sfiducia si sono diffuse come radiazioni. Chernobyl ha messo fine all’uomo sovietico, il tempo dirà l’entità del danno provocato dal coronavirus all’uomo neo-maoista-comunista-capitalista disegnato da Xi Jinping.



Il 2021 dovrebbe essere, con l’occasione del primo centenario del Partito comunista, l’anno in cui la Cina diventerà “una società di moderato benessere”. Il Paese che controlla già un terzo del Pil mondiale è stato capace di mettere in quarantena 50 milioni di persone, ma non è stato in grado di gestire efficacemente l’informazione, il bene intangibile decisivo in un’epidemia. Nel Paese in cui tutti i dati e ogni movimento sono controllati con l’applicazione We Chat, in cui in ogni angolo c’è una telecamera e i sistemi di Intelligenza Artificiale elaborano miliardi di dati a tutta velocità, le notizie più rilevanti per evitare una pandemia non sono arrivate ​​dove dovevano arrivare in tempo.



Secondo The Lancet, i primi casi sono stati scoperti all’inizio di dicembre. Alcuni rapporti sulla malattia sono stati prodotti all’inizio di gennaio, ma sono stati silenziati. Solo il 20 gennaio le autorità hanno annunciato la diffusione del virus. Non a caso, la morte del Dottor Li Wenliang, sanzionato dopo aver denunciato la presenza dell’agente patogeno in alcuni pazienti, lo ha reso l’icona di alcune critiche al potere che alcuni già paragonano al movimento che ha dato origine a Tiananmen. È molto significativo che le critiche dei dissidenti siano esplose su Internet nonostante lo stretto sistema di controllo imposto da Xi. Chiunque sia stato in Cina per fare informazione sa che è praticamente impossibile diffondere una notizia che metta in dubbio il potere o un’opinione critica senza essere immediatamente intercettato.

Solo il crescente malessere spiega l’insolita autocritica del sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, che probabilmente voleva essere usata come una barriera in modo che la malagestione non intaccasse gli organi centrali del partito. Ma Zhou stesso ha voluto incolpare i suoi superiori affermando che non avrebbe potuto fare nulla senza la loro autorizzazione. Si è dovuto attendere fino al 3 febbraio perché l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua facesse sapere che Xi Jinping aveva presieduto un Comitato centrale del partito in cui aveva puntato su un controllo dell’infezione basato sulla legge, scientifico e ordinato. Con questo gesto Xi intendeva autoassolversi dopo molti giorni di inusuale silenzio.

Da anni Xi Jinping si è reso protagonista di una marcia indietro nella separazione tra i poteri dello Stato e quelli del partito avviata a metà degli anni ’70 da Deng Xiaoping. L’espansionismo economico di Xi, la trasformazione della Cina in potenza marittima, lo sviluppo militare sono stati accompagnati da un ritorno a certe formule utilizzate da Mao. Questo neo-maoismo di Xi ha avuto uno dei suoi momenti più alti nella riforma costituzionale effettuata nel marzo 2018, con cui si è posta fine alla limitazione dei mandati presidenziali. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un solido cemento nazionalista. L’opinione pubblica del Paese, se questa espressione può essere utilizzata, ha visto con compiacimento il rafforzamento del leader e lo sviluppo del sistema di controllo come espressione di una nazione forte.

Non possiamo sapere quanto la crisi del coronavirus abbia eroso la fiducia in un regime e in una nazione che stava uscendo, secondo lo stesso Xi, da cento anni di afflizione. In Cina non è quasi mai facile sapere cosa sta succedendo. È diventato chiaro che la “governance” del nuovo impero, che mette in discussione la leadership globale degli Stati Uniti, non funziona di fronte a una crisi sanitaria. E questo può significare che c’è molta argilla nei piedi del gigante, non sappiamo quanta. D’ora in poi sarà più difficile continuare a portare avanti il mito secondo cui le élites politiche cinesi sono meritocratiche. I critici, che non parlano apertamente, sottolineano che Xi ha premiato i politici leali rispetto ai tecnocrati che potrebbero essere sì corrotti, ma hanno reso possibile l’espansione economica e hanno svolto alla fine il loro lavoro.

La doppia verità non funziona né a Usera, né in un mondo globale.