In tempi difficili come questi, la passione umana e civile, quella che fa interessare della convivenza quotidiana con chi ci sta intorno sembra diventata un bene raro. Per non parlare della fiducia nella possibilità di dare una svolta. Personalmente ce la si cava, ma come gruppo sociale o addirittura come Paese, ultimamente si pensa di non poter fare alcuna differenza. Per tale ragione bisognerebbe continuare a raccontare storie di rinascita come questa. Viene dal lontano Brasile, ma potrebbe, a maggior ragione, accadere ovunque.
Negli anni Novanta, la Ribeira Azul di Salvador di Bahia era una zona indicata sulla cartina, ma proprio non si vedeva. Gli alagados la ricoprivano completamente. Una insenatura di oceano splendida era completamente sconvolta, storpiata da catapecchie, ponti traballanti, palafitte una attaccata all’altra.
Si poteva vedere un anziano che dormiva in una capanna con l’acqua che arrivava al suo giaciglio, oppure un bambino che correva pericolosamente sulle passerelle di legno traballanti, o ancora donne che cercavano disperatamente di lavare i panni nell’acqua che serviva pure da gabinetto all’aperto.
Quello era l’inferno delle favelas particolari di Bahia, l’antica e affascinante capitale del Brasile. Neppure paragonabile ai grandi agglomerati di San Paolo o Belo Horizonte, ma una realtà più tragica per condizione di vita e di rapporti umani.
Sulla fascia di spiaggia che portava alla Ribeira Azul, verso mezzogiorno, c’era una fila di bambini e ragazzini che ogni giorno si snodava verso dei banconi per chiedere cibo. Ma quello che, al massimo, la Ong Avsi poteva fare in quel periodo, era di assicurare il pasto un giorno sì e uno no. C’erano ragazzini che piangevano quando non era il giorno del loro turno, piangevano in silenzio, appartati e partecipi alla comune disperazione.
L’Avsi non si arrende di fronte a quella realtà. Riunisce gli abitanti delle palafitte e si impegna con loro in un piano per la costruzione di abitazioni con servizi sulla costa. L’iniziativa è ambiziosa, ma la Banca mondiale rimane colpita dal progetto e ci investe.
Quando la costruzione è quasi finita, la Ribeira Azul riappare in tutta la sua bellezza. Il progetto poteva essere considerato concluso.
Invece, un finanziere milanese e sua moglie, in visita nella zona, capiscono che la ricostruzione materiale è solo una premessa e che per rendere stabile lo sviluppo bisogna investire sulle persone.
Davanti a Bahia ci sono isole splendide dove i tedeschi hanno investito in turismo di lusso e guadagnato. Ma la coppia ha altre idee e si domanda: che cosa serve costruire case con servizi igienici se poi i giovani che sono passati dalla favela alla casa sono risucchiati dalla delinquenza, dall’ignoranza, dallo spaccio di droga, dalla disoccupazione strutturale?
Senza l’educazione, qualsiasi intervento innovativo di case e strade, è alla fine destinato al fallimento. Dopo l’aiuto e l’impegno, la coppia ha un dialogo con don Luigi Giussani e decide di far costruire una chiesa. Il risultato parla da solo: tanta gente, tanti giovani soprattutto trovano nella chiesa e nei sacerdoti missionari che la guidano un punto di riferimento umano, affettivo, spirituale e anche materiale. Per la prima volta c’è qualcuno che pensa a loro, che si occupa di loro.
La comunità di quella che era una baraccopoli di alagados, in breve tempo, si allarga ancora. Altri imprenditori accanto al primo capiscono l’importanza di luoghi di incontro, per il doposcuola, per riunioni e pure dei campi di calcio, di pallacanestro, di pallamano, di pallavolo e persino luoghi dove si possa ballare. Decidono così di costruire un centro sociale vicino alla parrocchia e chiedono che ci siano educatori che vivano insieme ai ragazzi.
Vogliono consigli e si rivolgono a don Julián Carrón, che ha sostituito don Giussani dopo la sua morte. Don Carrón suggerisce di parlare con una ragazza emiliana impegnata in un’opera sociale.
È una storia semplice e nello stesso tempo incredibile. La ragazza accetta di andare ad abitare a Bahia e di occuparsi del centro sociale.
In pochi anni la Ribeira Azul non è cambiata solo per le nuove strutture edilizie, ma per l’umanità che la popola. Centinaia di ragazzi frequentano il doposcuola e vogliono studiare e imparare anche quello che a scuola spesso trascurano. Lo scetticismo dei titolari delle scuole dove studiano, muta di fronte a questo cambiamento e sono quasi sbalorditi per il nuovo impegno e interesse dei ragazzi. Al recupero umano e scolastico si accompagna la passione per lo sport: i ragazzi creano squadre, partecipano a gare e a campionati minorili.
Ovviamente non cambia tutto di colpo. Il ricordo della favela ha lasciato il suo timbro di violenza, dove ci si ammazza pure e dove si traffica in attività illecite. Ma sono sempre di più quelli che cercano un futuro di studio e di lavoro. Sono ormai tanti quelli che guardano a questo luogo come un punto di speranza pur nelle difficoltà in cui sono cresciuti.
C’è la storia drammatica di un ragazzo, che sapendo di dover essere ammazzato da una banda rivale per un regolamento di conti, trascorre il pomeriggio e la sera precedenti con l’educatrice del centro, come se volesse lasciare un testamento spirituale: la sua vita sarebbe durata ben più a lungo oltre la sua fine violenta. Ora ci vuole un altro passo: una scuola professionale che insegni un mestiere a chi lo vuole.
La storia di Bahia non è una favola. Ma la dimostrazione che la vita delle persone può cambiare se immersa in una cultura sussidiaria, che aiuta a coinvolgersi, a generare luoghi di vita, di educazione, di nuova umanità.