Ieri, sulla sua pagina Facebook, Housan Adnan, medico all’ospedale Al-Shifa di Afrin, nel nord-ovest della Siria, ha raccontato questa vicenda di cui è stato diretto testimone: “Oggi, di mattina presto, una bambina è arrivata nel nostro ospedale di Afrin. L’ha portata suo padre dalla tenda in cui vivono a pochi chilometri da qui perché era assiderata. Gli ha messo addosso tutto ciò che possiede per tenerla al caldo. Ha fatto tutto il possibile per scaldare il suo cuoricino. L’ha stretta forte e piangendo ha camminato dalle cinque del mattino nella neve e nel vento. Ha camminato con le scarpe logore tra le macerie del suo Paese. I suoi arti erano congelati, ma il suo cuore continuava ad abbracciarla. Ha camminato per due ore prima di arrivare al nostro ospedale. Con grande difficoltà, siamo riusciti a separarlo dalla figlia e abbiamo visto il viso angelico della bambina, sorridente. Ma immobile. Abbiamo provato a sentire i battiti del suo cuore ma era morta! Un’ora fa! Quest’uomo ha portato il corpo della figlia senza saperlo”.
Questa bambina ha un nome: Iman Mahmoud Laila. E aveva anche un’età: 18 mesi. Appena nata la sua famiglia era dovuta scappare dal quartiere alla periferia di Damasco dove abitavano, teatro di una feroce battaglia. Erano scappati in direzione di Aleppo, trovando un rifugio di fortuna in un centro per sfollati improvvisati: vivevano in una tenda, come testimonia il dottor Adnan. Il freddo di questi giorni, arrivato a toccare gli 11 gradi sotto zero. Il freddo che ha ucciso la piccola Iman Mahmoud Laila e non solo lei, come riferiscono tante drammatiche testimonianze. Non siamo lontani dal confine della Turchia e qui negli ultimi tempi si sono ammassati oltre 700mila profughi scappati dall’offensiva di Assad, determinando una nuova emergenza umanitaria dimenticata da tutti.
E nel cuore di questa emergenza ci sono i bambini. Tanti bambini, come ci ricorda anche un meraviglioso documentario, selezionato per gli Oscar, e arrivato ora in Italia. Si intitola For Sama. Lo ha girato una regista, Waad al Kateab, durante l’assedio di Aleppo, la sua città. Sama è sua figlia, nata durante le riprese, nata dall’amore con chi era diventato suo marito, un uomo che dirige uno degli ultimi ospedali funzionanti della città.
Il film è come una lettera alla figlia, narrata con la voce dolce di una madre. Una madre che da una parte, filmando, non risparmia niente di tutto quello che vede attorno a sé, ma dall’altra vuole spiegare a sua figlia perché ha comunque voluto farla nascere, pur in quell’inferno.
Chi guarda il film si trova davanti questo contrasto tra la durezza e a volte anche l’atrocità di tante situazioni, e l’ostinazione tenera della voce narrante di una mamma, il suo tono sempre misurato e dignitoso con cui si rivolge a sua figlia. Sama in arabo significa cielo. Con questo nome i suoi genitori hanno voluto dire che quella figlia rappresenta la speranza: speranza per loro ma anche per tutti quelli che lavorano insieme a loro, ad esempio nell’ospedale.
La speranza non può essere un’idea. Può essere solo una vita, con la sua fragilità ma con la sua irriducibile concretezza. Era la speranza per quel padre che ha avvolto la sua piccola per strapparla invano al freddo. Ed è la speranza per questa regista tenera e battagliera. Tutt’e due, come tanti nella Siria martoriata, hanno cercato qualcosa che attestasse la possibilità di un altro orizzonte oltre l’inferno che stavano attraversando; qualcosa che attestasse che non è dell’inferno l’ultima parola. Questo qualcosa ha preso la forma di vite piccole e indifese, esposte al dramma quotidiano della guerra. In tanti casi vittime, ma comunque ciascuno incarna una speranza a cui umanamente non si può rinunciare.
PS: storie e dinamiche come queste fanno capire quanto siano importanti progetti come quello varato da Avsi proprio negli ospedali di Damasco e Aleppo. Sono un sostegno semplice e reale a quella speranza.