Un rimedio sbagliato porta spesso più problemi del male che vuole curare; partendo dalla necessità di affrontare un’emergenza o un pericolo si intraprendono strade che sembrano nuove e mirabili e ci si allontana dalla razionalità e dalla storia per proporre ricette o metodi sperimentali, sperando che un approccio mai tesato, spesso semplicistico, sia la soluzione a cui nessuno aveva pensato. Ma la logica dice che quando un problema complesso ha una soluzione troppo semplice probabilmente non si è compreso il problema ed i danni in prospettiva saranno maggiori. Le scorciatoie mentali sono, in sostanza, un inganno, quando invece che rispondere al problema tentano di eluderlo. 

Anni fa il nostro Paese aveva da affrontare un tema complesso. Come ricollocare tanti che, figli del boom demografico post-bellico, non avevano casa e come risolvere, quindi, la crisi da sovrappopolamento delle aree limitrofe alle grandi città. Le grandi città del Paese erano circondate da baraccopoli e da alloggi di fortuna in cui vivevano ammassati nuclei familiari afflitti da carenza di igiene e di servizi, emarginati socialmente, spesso nel ruolo di sfruttati e obbligati, in tanti, ad una devianza di sussistenza.

La soluzione più semplice fu costruire solo delle case e creare le periferie. Dei luoghi di deposito di anime, senza storia e senza collegamenti, in cui far sorgere complessi edilizi enormi e senza fine, capaci di accogliere nel loro grembo migliaia di persone da sottrarre alle intemperie e che, già solo perché non più coperti da lamiere e cartoni, avrebbero recuperato, nelle intenzioni, la loro dignità e sarebbero così emersi ad una vita sociale in grado di riscattarli. Nei secoli precedenti si sarebbe fondata una nuova città e si sarebbe immaginato un complesso di servizi autonomo; dai romani in poi è l’identità dei luoghi a fare i cittadini. 

La periferia, invece, è forse la peggiore delle invenzioni dell’urbanistica del secolo scorso, ha in sé l’idea che in quel non luogo non si viva e che abitarci sia di per sé una marchio. Chi ci si trova per nascita o per eventi della vita sa la fatica che costa uscirne. La prossimità al centro della vita, al centro delle città è solo un’illusione da coltivare con una gita di qualche ora, con l’effetto di entrare in un acquario dalle pareti trasparenti in cui al vita degli altri si svolge con intensità e qualità diversa. E spesso in quelle periferie la marginalità delle proprie vite si affronta ricorrendo ad una scorciatoia peggiore. Solo la devianza ed il crimine paiono a troppi l’unica strada per uscirne. E nella distanza fisica e sociale dal centro delle città, interi percorsi di vita si dipanano bruciando esistenze e riempiendo di fallimenti le carceri.

Aver immaginato un società fatta di periferie, e non di province, è stato socialmente un errore imperdonabile. In provincia si vive attorno a nuclei che hanno una loro identità ed una loro dignità, tradizioni, cultura e ricchezza proprie e la lontananza dal centro è spesso quasi salvifica, offendo al presunto centro risorse ed energie cresciute in un humus culturale in grado di vivificare tutto ciò che le circonda. Traiano, Adriano e Settimio Severo venivano dalla provincia e resero più forte Roma. Molti dei leder politici e delle eccellenze di impresa del Paese vengono dalla provincia. Dalle periferie emergono in pochi. Troppo pochi.

L’identità dei luoghi condiziona le vite e non si può immaginare un futuro per il Paese senza una riflessione. A Milano le periferie oggi hanno ripreso una loro centralità diventando in realtà parti di una strutta urbana complessa, trasformate e rese parti integranti del tessuto urbano. Molte regioni italiane sono fatte di ricche province e piccole città e hanno offerto benessere e crescita al Paese.

A Napoli, sono alcuni giorni fa, si è avviata la demolizione della famigerata Vela Verde. Il set di Gomorra e la casa di una delle sedi della Camorra Spa, forse il sito più iconico. La demolizione è stata tardiva rispetto alle promesse, doveva accadere anni addietro, ma quel simbolo di un’idea segregante e distorsiva di coabitazione verrà giù. Ne resta qualcuna da abbattere, ma quel che conta ora è decidere come ricostruire, non tanto e solo gli elementi architettonici, ma il senso di comunità che serve a tutte le periferie del Mezzogiorno per avere un’identità propria, trasformandoli o in parte integrante e viva della città o offrendo la possibilità di uno sviluppo autonomo come provincia. Evitare che quei luoghi restino periferie e diventino invece luoghi aggreganti e vivi è l’unica soluzione possibile.

Pare che nel vuoto che lasceranno le Vele si insedierà l’Università di Napoli, pare che vi siano dei progetti per delocalizzare anche delle strutture pubbliche, ma poco servirà se non vi saranno servizi e spazi che aggreghino e se non si provvederà in fretta. Nel Mezzogiorno troppo spesso dopo gli abbattimenti resta il vuoto, come a Bagnoli. Troppo spesso l’emergenza è buttare giù le cose e non realizzarle. Sembra un tema architettonico ma è in realtà un vero progetto sociale, da curare utilizzando strumenti di pianificazione nuovi, aprendo ai privati (come a Porta Nuova a Milano) e sarà questo uno dei punti nevralgici che chi amministra e governa il Mezzogiorno e le sue città dovrà affrontare, questa la visione da realizzare sapendo che è un tema complesso. Senza scorciatoie e con l’idea che i luoghi creano il futuro molto di più di quel che in passato si riteneva.

Non servono tetti, ma la consapevolezza che senza visione si rischia solo di costruire nuove periferie in cui stipare il degrado e non ricche province da cui attingere per crescere.