L’Italia sembra ormai diventato il paese dell’emergenza endemica e continua. Nessuno vuole sottovalutare i nuovi problemi che ogni società moderna, avanzata e postmoderna deve affrontare. Come scriveva, in un famoso saggio del 1986, il sociologo tedesco Ulrich Beck La società del rischio. Verso una seconda modernità, la caratteristica prevalente dello scontro di classe delle precedenti società industriali è stata in parte sostituita da cinque sfide congiunte: la globalizzazione, l’individualizzazione, la disoccupazione, la rivoluzione dei generi, i rischi globali della crisi ecologica e della turbolenza dei mercati finanziari.



Il libro di Ulrich Bech arrivò in Italia con il consueto ritardo, per quelli che vengono considerati “i libri da leggere”, di ben 14 anni. Nel 2000 appare infatti la prima edizione italiana e sembra quasi codificare il ritardo italiano, soprattutto politico, istituzionale e mediatico, nell’affrontare la modernità globalizzata.



Nella “società del rischio” mondiale ci può essere pure la comparsa di un virus sconosciuto, che cresce e si modifica nella natura (diffidiamo della dietrologia da laboratorio della Spectre), che mette in apprensione tutti, da un capo all’altro del mondo, anche perché i portatori sani o meno sani si spostano con gli aerei e con la rapidità di poche ore. In casi come questi il compito della politica soprattutto è quello solito: interpretare il passato, spiegare il presente, cercare di elaborare una visione con la massima razionalità possibile.

Ma in Italia l’apprensione e la prevenzione provocano invece, letteralmente, un pandemonio, per il sistema Paese che si divide su tutto, non funziona più, ha in questo momento (oltre 25 anni) una classe dirigente inadeguata soprattutto per l’“ideologia italiana” storicamente sedimentata in una maggioranza, divisa e compatta tra opportunismo, sogni rivoluzionari di vario genere mai realizzati e privilegi da mantenere.



Con l’allarme coronavirus, quello che il ministro degli Esteri Giggino Di Maio chiama “vairus”, si è visto da parte del governo di “Giuseppi” Conte 2 un capovolgimento di comportamenti che lasciano esterrefatti, ma che corrispondono all’impreparazione, all’improvvisazione e all’opportunismo della ricerca del consenso. 

Una breve ricostruzione. Qualche mese fa, forse di più, a Wuhan, capitale della provincia di Hubei in Cina, scoppia un grande focolaio di questo virus. C’è un’allerta mondiale e già si parla di passaggio dall’epidemia alla pandemia.

In quel periodo, incravattato e impochettato, il Conte 2 è ancora impegnato nei contrasti, anche quelli ormai endemici, di governo, tra maggioranze da fare e rifare, con tutti i problemi connessi. L’opposizione, per spirito spesso più polemico che realistico, propone misure più rigorose, spesso inadeguate e volutamente in contrasto con il governo.

Conte 2, in tutti i casi, fa una mossa non proprio acuta: chiude i voli diretti tra Italia e Cina, in modo che così non si riesce più a far controllare la grande parte di quelli che arrivano direttamente con un aereo e lasciando che il rientro da Wuhan avvenga per normalissime vie traverse, da tutti gli scali del mondo, dopo la partenza dalla Cina.

È interessante vedere e paragonare i titoli dei media in quel periodo di “attesa degli sviluppi”: gli uni schierati contro gli altri o tifosi degli uni e degli altri, alla faccia (costume notissimo in Italia) della difesa e completezza dell’informazione.

Poi, nel giro di tre giorni, quando scoppiano due focolai in Italia, certamente preoccupanti ma anche limitati, arriva il finimondo. Conte 2 abbandona giacca, cravatta e pochette, indossa maglioncini misto cachemire, interviene in tutte le trasmissioni televisive (una a rete unificate che irrita persino il presidente Mattarella), convoca in seduta costante e perenne “vertici” politico-sanitari, che naturalmente prima i media ampliano, poi i social infiocchettano con stravaganza para-delinquenziale, creando in questo modo il virus mediatico che terrorizza tutti.

La misure della difesa dall’infezione sembrano guidate da una sorta di “war room”, da cui escono decisioni una più rigida dell’altra: chiusura delle scuole, degli stadi, dei locali pubblici dopo le sei di sera. E chi ne ha più ne metta. Si svuotano le metropolitane milanesi, la gente non va nemmeno in giro, si saccheggiano quasi i supermercati con spese “mensili” straordinarie per barricarsi in casa. L’azione del Conte 2 diventa, di colpo, durissima, impopolare e inascoltata in Europa, paradossale rispetto all’approccio iniziale. E sopratutto devastante sul piano economico.

La colpa è dei media? Possibile. Ma certamente il prode Conte 2 e il suo “geniale” governo hanno fornito con il loro comportamento uno strumento di paura generalizzata e di crisi economica che va diritta verso la recessione.

Si può notare che a Milano si è programmato il rinvio di tutte le manifestazioni che prevedono un piccolo assembramento. Si possono guardare i bar e i ristoranti vuoti. In più, le aziende che si fermano e fanno comprendere che, in questo modo, si può andare verso la chiusura definitiva. Poi il turismo che crolla con una serie di cancellazioni già programmate per i prossimi mesi.

Alla fine, sembra quasi scontata la dichiarazione di un imprenditore: “Si muore più di crisi economica che di coronavirus”. Oppure la versione rabbiosa di un barista della periferia milanese: “Per me chiudere alle sei del pomeriggio significa fare il 40 per cento di fatturato in meno”. E fortunatamente ieri i bar hanno proseguito a restare aperti a Milano, dopo una nuova virata di decisione.

Ora, è vero che un nuovo virus sconosciuto mette panico e richiede interventi pubblici, di decisione politica e non solo quella di esperti e competenti. Ma non va dimenticato che, pur tra alcuni parziali contrasti tra i virologi, il corona virus è curabile, è una variazione probabilmente più complessa dei tanti virus influenzali che sono in circolazione.

Quale era allora il problema? Era quello di evitare che l’eccellenza sanitaria italiana fosse travolta da una questione di ospedalizzazione eccessiva e incontrollabile? Se è così, valeva la pena di investire soldi pubblici sulla sanità immediatamente, mandando a quel paese i “famosi” parametri di Maastricht che sono diventati la comica, più triste e disperante, dell’economia di mercato imposta dalla vecchia Europa, sempre più appannata, che non riesce neppure a stilare un bilancio e a darsi un appuntamento per approntarlo.

Ora si deve aspettare, facendo i debiti scongiuri, l’andamento della diffusione del virus. Poi, se la situazione sanitaria dovesse migliorare, si tornerà alla realtà di questo governo e alla sua capacità di rilanciare (parole del premier) l’economia del Paese. Sarebbe veramente triste se, dopo la recessione dell’ultimo trimestre del 2019, si dovesse aggiungere una recessione più pesante nel primo trimestre del 2020, dopo aver strologato sull’obiettivo da raggiungere nel 2022.

Chissà se il paese accetterà una recessione solo in base ai due focolai di coronavirus?

Fa impressione sentire parlare di un “governissimo” in preparazione e di un prossimo colloquio tra Matteo Salvini e Sergio Mattarella. Ma fa ancora più impressione sentire da Claudio Velardi, uno dei vecchi consiglieri di Massimo D’Alema, che si vive in un Paese dove c’è “lo sbullonamento completo delle istituzioni”. E, sempre Velardi: “Forse è finita la psicosi mediatica, ora dovrebbe terminare quella politica. Ma attenzione, per l’attività degli ospedali sta arrivando il solito terzo incomodo: la magistratura”.