Meno del 10 per cento dei genitori partecipa alla vita democratica della scuola. È questo, impietoso, il dato che emerge dai Rapporti di autovalutazione delle scuole italiane. Eppure dall’analisi dei social si direbbe il contrario: genitori che si scagliano apertamente contro docenti rei di non saper spiegare, di dare troppi o pochi compiti, di far leggere libri sbagliati, eseguire esercizi inutili, assegnare ricerche giudicate superate o poco efficaci per l’apprendimento. Inoltre, come se non bastasse, aumentano i genitori che si affidano al Tar per i più disparati ricorsi: non solo per la bocciatura, ma per gli esercizi della verifica di fisica, il voto giudicato troppo basso dell’esame di Stato, la declinazione considerata poco oculata di alcune parti del curricolo di istituto, il numero di verifiche o di recuperi.
Il quadro che dunque si presenta è alquanto caotico ed enigmatico: perché esserci così poco nei luoghi che contano dal punto di vista educativo, come i consigli di classe, ed esserci così tanto nei luoghi dove non si dovrebbe esercitare la propria responsabilità genitoriale, ossia il web e i tribunali?
La risposta è purtroppo semplice: alle famiglie odierne poco interessa il profilo educativo di una scuola – sono rari i casi dove esso è discusso o messo in discussione –, alle famiglie odierne – e alle loro infernali chat di Whatsapp – interessa la valutazione e la ripercussione di ciò che si fa a scuola sulla loro vita familiare. Il tema decisivo oggi, a livello educativo, è di chi è un figlio. Se il figlio è una proprietà del genitore o dello Stato, assistiamo al sorgere di due sistemi totalitari uguali e contrapposti: il primo si rivolgerà allo Stato solo per trovare conferme circa la propria abilità educativa, il secondo si rivolgerà alle famiglie solo per chiedere nuovi iscritti, senza alcuna considerazione del percorso e della storia del minore. E per carità di patria si eviterà di parlare del potere delle società sportive o delle agenzie che promuovono il talento, unici veri interlocutori dei genitori che pretendono di dettare gli orari di ingresso e di uscita da scuola, i compiti, le attività pomeridiane, la mole di studio.
Il punto è che per questi genitori tutto andrebbe comunque bene se le valutazioni fossero in linea con le loro attese, ma come si fa oggi a dare un 4 in matematica senza dover fare un colloquio con la mamma o il papà e dover produrre le verifiche per la ragazza delle ripetizioni, l’unica che nella vulgata familista insegna qualcosa al ragazzino? Come si fa a dare 5 a uno che la sera prima ha ripetuto la lezione alla mamma e “la sapeva benissimo”? Come si fa a rapportarsi con una generazione di genitori che, in fondo, crede che il voto dato in una disciplina a loro figlio non sia altro che il voto dato alla loro capacità educativa?
Al genitore oggi non interessa partecipare ad un rapporto: il genitore vuole decidere gli insegnanti, vuole stabilire le verifiche, elargire gli strumenti dispensativi e compensativi che ritiene opportuni, valutare, stabilire i criteri di partecipazione ad esperienze e uscite, determinare il voto di condotta e scegliere i libri, le sezioni, i banchi, le aule, le tempistiche e il calendario dell’anno. Tutto questo oggi è scuola, pena essere scomunicati sulla chat di whatsapp della classe o – sempre più spesso – trovarsi in tribunale.
Davanti a genitori del genere i ragazzi si impauriscono, temono di non avere più l’applauso o il consenso cui sono stati abituati, individuano il docente come l’ostacolo – il nemico – per la loro libertà di azione e di movimento. E pretendono di non faticare, di lavorare meno, di andare dalla mamma e dettare legge a scuola, fra i banchi, con un sms mandato durante l’ora di lezione, in un eterno cordone ombelicale.
È evidente che questo non è vero per tutti e non è vero dappertutto, ma in un numero sempre maggiore di scuole insegnare significa votarsi al martirio e non trasmettere quello che si è studiato, capito, amato.
Viviamo un tempo che ha perso il gusto della fatica, la necessità dell’errore, l’ironia nell’insuccesso, la forza del fallimento. Un tempo che ha dimenticato quanto sia bello essere giudicati da chi ha l’autorità per farlo. Un tempo che ha smesso ogni voglia di partire per ricercare un’eterna celebrazione di sé e delle proprie capacità. Un tempo che ha sostituito il mistero dell’educazione con un ignoto da cui fuggire e avere paura. Un tempo di tribù, dove individui sempre più soli chiedono alla scuola di fermarsi, di non fare troppo male. Perché loro, in ultima istanza, non sanno più che cosa dire dinnanzi al dolore.
Meglio difendersi, meglio prepararsi prima, meglio scrivere su Facebook e su Whatsapp: non sia mai che nostro figlio ci costringa a guardarci allo specchio.