La domanda lasciata dalla Brexit

Il momento della Brexit è arrivato e resta la domanda su come sia stato possibile che il bene evidente di un'unità tra europei non fosse più tale

Venerdì, poco prima che la Brexit si materializzasse, non si parlava d’altro nella Main Street di Gibilterra, l’ultima colonia sul suolo europeo. Gli abitanti della stradina che si snoda sotto la Rocca, in conversazioni iniziate in inglese e terminate in uno spagnolo molto meridionale, hanno paragonato la loro vita a quel che accade al confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Le chiacchierate, sulle terrazze o in incontri fortuiti, terminavano con frasi stoiche con riferimento alla sopravvivenza degli abitanti di Peñón (il Peñón de Vélez de la Gomera è una piccola penisola rocciosa politicamente appartenente alla Spagna, ma geograficamente situata sulla costa del Marocco, ndt).

Pochi minuti prima di mezzanotte, al confine, la bandiera dell’Unione europea è stata ammainata ed è stata issata quella del Commonwealth. Non c’è stata alcuna festa. Solo 800 llanitos (nome con cui sono noti i 34.000 britannici di Gibilterra) hanno votato nel referendum del 2016 a favore dell’uscita dall’Unione europea. La retorica della resistenza non cancella la memoria di ciò che implica un confine senza libertà di movimento (specialmente delle persone). Tutti gli over 50 ricordano la chiusura del confine, l’isolamento, la necessità di lasciare via mare la punta meridionale della penisola iberica. E la ferita della memoria è stata trasmessa ai bambini. Gli abitanti di Gibilterra possono vivere grazie alle entrate di un paradiso fiscale non riconosciuto, al gioco d’azzardo, al contrabbando di tabacco, al bunkeraggio di petrolio, ma sanno che fuori da un mercato unico, senza libertà di movimento per i 14.000 lavoratori che attraversano il confine ogni mattina, la vita sarà molto più difficile. La vita senza poter mangiare, dormire, prendere il sole, risiedere in Spagna, sarà molto più difficile.

Sarebbe esagerato confrontare la mescolanza economica, sociale e culturale esistente tra Gibilterra e la Spagna meridionale con le connessioni che si sono create dal 1973 a oggi tra il Regno Unito e l’Unione europea. Ma l’interdipendenza è grande. Negli ultimi anni è stato ripetuto alla nausea un dato: il 53% delle importazioni del Regno Unito proviene dall’Ue, mentre il 45% delle sue esportazioni è diretto all’Ue. Il Paese, al di fuori dell’Unione, è una potenza media, la sesta economia mondiale con “solo” 66 milioni di abitanti in un mondo globalizzato. Le cifre hanno da tempo cessato di essere qualcosa di significativo e rilevante per molti. A esse si risponde con il progetto di nuovo accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e con un futuro accordo con Bruxelles come quello che ha il Canada. Un accordo che richiederà anni di negoziati (è difficile sia concluso prima della fine del periodo transitorio) e che implicherà una situazione peggiore di quella di un partner europeo. Il Regno Unito è sempre stato un partner speciale, fuori dall’euro e da Schengen. D’ora in poi Londra controllerà, secondo i propri criteri, la migrazione europea. Ma non si può dire che le sia andata male con gli spostamenti dei continentali.

Perché?, è la domanda che tutti ci poniamo in questi giorni. Era previsto, eravamo stanchi dei negoziati, abbiamo quasi desiderato che arrivasse il momento, ma ora siamo in uno stato di lutto e ci chiediamo: perché il bene evidente di un’unità, anche se precaria, tra gli europei continentali e gli europei delle isole è crollato? Poiché la storia non procede in modo lineare e può tornare indietro come sanno i cittadini di Gibilterra che ricordano una frontiera chiusa, ci resta il compito di comprenderne le ragioni.

Ci sono indubbiamente fattori storici, sociologici e politici. Thatcher non era una leader radicalmente anti-europea, almeno non come lo sono quelli attuali. Ora che siamo in lutto, dobbiamo ricordare le sue parole a Bruges, quando disse che i britannici sono eredi della cultura europea come qualsiasi altra nazione e che i legami con il resto dell’Europa, con il continente europeo, sono stati il ​​fattore dominante della storia britannica. Ma il suo anti-federalismo e il suo motto “I want my money back” suscitarono negli anni ’80 il sospetto che i mali dei britannici nascessero dall’altra parte della Manica.

Poi è arrivata la decisione di Cameron di sottoporre la storia e il destino del Paese a un referendum senza requisiti speciali. In quel momento secoli di democrazia deliberativa saltarono in aria. Vennero meno le buone pratiche con cui i governanti si assumono le loro responsabilità, si distingue tra decisione e volontà politica e i processi di deliberazione rispondono alla complessità di quanto viene deliberato. Senza dubbio la rivoluzione digitale è stata decisiva. Le campagne di disinformazione hanno ora, grazie all’utilizzo del data mining e alla previsione del comportamento delle persone per influenzarlo, un peso decisivo. E non dobbiamo scordare l’incapacità dell’Unione europea di rendere visibile un progetto in cui la cittadinanza comune sia qualcosa di tangibile.

Ma non possiamo dimenticare che gli inglesi hanno dato la maggioranza assoluta a Cameron che aveva il referendum nel suo programma e un’altra maggioranza assoluta a Johnson che ha mentito, come giornalista e come politico, quando ha parlato dell’Europa. Non possiamo dimenticarci la libertà. La storia non è finita, la storia non procede in modo lineare e c’è chi decide che l’altro è un inconveniente. Per questo sulla Main Street di Gibilterra venerdì scorso si parlava di Tijuana. Il muro non è un’ombra.

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