Quando l’Istat snocciola le cifre di una stagnazione italiana sempre più prolungata e preoccupante – una crisi che l’emergenza cinese rischia ora di aggravare – è comprensibile, quasi inevitabile che molti nel Paese si chiedano: dov’è Mario Draghi? Perché non attingere alla sua competenza d’eccellenza in campo politico-finanziario, ora che essa non è più impegnata al vertice Bce? Perché non chiedere a lui di impegnare al servizio del suo Paese una credibilità internazionale pari a quello di un importante capo di Stato o di governo?

Lo stesso accade quando il Fmi sollecita l’Italia a cancellare il reddito di cittadinanza e a varare una nuova riforma delle pensioni: diversa e forse più costruttiva rispetto a quella decisa dal governo Monti in chiave di esclusiva austerità. Nel 2011, tuttavia, la febbre dello spread era estremamente alta e richiedeva terapie d’urto.

Se da anni il costo del debito non è più un’emergenza, il merito quasi esclusivo è di Draghi (e il demerito è semmai di chi, al governo in Italia, non ha messo a frutto un’opportunità forse unica). Nel pilotare l’espansionismo monetario della Bce il banchiere italiano ha mostrato, fra l’altro, una lealtà europeista tanto concreta quanto ormai unica. Il Qe dell’euro è stato pensato per tutti i paesi dell’Unione e tutti, a vario titolo, ne hanno beneficiato: anche quelli che lo hanno contestato. Non a caso Christine Lagarde, subentrata alla guida dell’Eurotower, è molto cauta nel modificare la strategia impostata dal predecessore (la Francia stessa ha registrato un calo del Pil nell’ultimo trimestre 2019).

Si sente, d’altronde, una sorta di attesa di Draghi anche nelle voci di un meridionalismo autentico che non si rassegnano a che la crisi Whirlpool si chiuda con il disimpegno da Napoli di una multinazionale americana e il lascito di 400 dipendenti per strada.

In breve: di fronte a una stanza dei bottoni apparentemente spenta e disabitata a Roma, il primo – e forse unico – nome cui tutti guardano è quello dell’ex governatore della Banca d’Italia. Prima ancora che per decidere nel merito, perché torni a esservi al vertice della governance nazionale una figura in possesso di capacità riconosciuta di assumersi la responsabilità di decidere. Whatever it takes: non si può mai evitare o rinviare l’impegno a profondere ogni energia per difendere il patrimonio civile di un’Italia che ha co-fondato l’Europa.

Quale sia il suo profilo, Draghi lo ha confermato una volta di più pochi giorni fa, ricevendo dal presidente della Repubblica di Germania la più alta onorificenza civile tedesca. Nel discorso di accettazione, il banchiere ha ripreso molti dei temi della lectio svolta all’Università Cattolica di Milano, che in ottobre lo ha insignito di una laurea honoris causa. Ancora una volta, quando Draghi dice “Europa unita” o “impegno contro il cambiamento climatico” oppure “lotta alle diseguaglianze” è immediatamente chiaro lo spessore di ideali (non di ideologie), elaborazione teorica ed esperienza di governo che distinguono le sue raccomandazioni da quelle di chiunque altro.

E’ chiaro che per lui tutto va votato alla resilienza, alla crescita, alla costruzione di nuovi equilibri socio-economici: all’opposto di ogni demagogia che vada a discutere o tradire l’irreversibilità della liberaldemocrazia di mercato, senza muri e senza guerre, tanto meno economiche.

E’ certamente, quella di Draghi, una figura refrattaria a ogni tentativo di strumentalizzazione in agguato. Chi cerca di contrapporlo al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non fa che confermare che nell’Italia del 2020 esistono soltanto due vere “riserve della Repubblica”: una è in carica per sette anni al Quirinale; l’altra è “in ritiro”. Pronta ad assumere il ruolo che la democrazia istituzionale del suo Paese gli chiedesse.